Coaching in tutte le salse

Sono tutti coach, ognuno nella propria nicchia. Ma chi certifica le competenze? E come distinguere tra chi studia seriamente e chi improvvisa?

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Horizontal image of a man stacking pebbles on a table with copyspace for text. Concept of personal development or self realization.

Ne è passato di coaching sotto i ponti della conoscenza, dall’inizio degli anni 2000 quando questa metodologia comunicazionale ha cominciato a diffondersi tra persone interessate al miglioramento, proprio e di altri. Alcuni ne hanno fatto la propria (nuova) professione, inserendosi nella scia dell’ICF (International Coach Federation) l’allora unica associazione internazionale, studiando e praticando per ottenere una certificazione che in qualche modo attribuisse riconoscimento a una modalità consulenziale che voleva differenziarsi dal semplice consigliare “ti dico io cosa devi fare e come”. Poi di associazioni ne sono nate altre, da AICP ad ACOI (e sono davvero parecchie se la rivista di coaching CoachMag ha voluto farne un’inchiesta spalmata su diversi numeri); si sono creati gruppi e comunità con pensieri e filosofie talvolta divergenti sul metodo, più che sul risultato inseguito; si è iniziato a sentire l’esigenza di fare distinzioni (coach o motivatori? formatori o consulenti? meglio ex-psicologi o ex-manager?) e a puntualizzare i confini. L’attualità vede pure una norma, la UNI11601, non tanto orientata a certificare le competenze del coach quanto il processo di erogazione del percorso di coaching.

Il coaching entra in azienda

In tutto questo movimento, tra chi studia seriamente e chi improvvisa, ci sono i clienti: aziende o singole persone. La soddisfazione maggiore per un coach è lavorare con un cliente (coachee) attento, interessato, motivato a cambiare qualcosa nel proprio modo di relazionarsi e di comunicare per migliorare quel momento della sua vita che non risponde ai propri desideri. Queste sono le persone che, cercando cosa potrebbe fare al caso loro, incontrano il coaching e scelgono con quale coach interagire: poche persone, con budget limitati. Dato che non si vive di sola soddisfazione, da parte dei novelli coach è partita la corsa a introdurre il coaching nelle aziende, che potevano garantire programmi più ampi, con parecchi manager coinvolti e diversi mesi di lavoro. In questi casi la soddisfazione del coach ha dovuto scontrarsi con le presunzioni aziendali e la riottosità dei manager, che sì certo che volevano migliorare i propri risultati attraverso maggiori sforzi nell’ascolto e nella comprensione degli altri, e magari facendo qualche domanda in più ed evitando di abbaiare ordini, ma le vecchie abitudini sono dure a morire e abbiamo sempre fatto così, perchè mai cambiare? E poi, siamo sicuri che la formazione sia davvero utile? Non basta leggere velocemente qualche libro sulla leadership? In più, c’erano (e ci sono ancora) i direttori generali, i capi delle risorse umane e quelli che decidono, che di coaching ne avevano giusto sentito parlare, di approfondire non c’è mai il tempo (nè la voglia), che sostenevano che “il coaching sostituirà la formazione tradizionale, per gli altri non certo per me, che comunque ho già studiato abbastanza”.

Negli anni poi è davvero successo che molti direttori ne acquisissero le conoscenze di base per poter negoziare e costruire progetti sensati, anche se uno degli ostacoli più persistenti resta sempre il budget. Le aziende continuano a voler fare molto con poco, a cercare risultati miracolosi a fronte di impegni economici e di tempo sempre più ristretti: “ma non si potrebbe fare questo corso un paio dore al sabato, prima o durante la cena del nostro meeting annuale?”. Tanti direttori e manager invece ci hanno messo la testa e il cuore, hanno capito che impegnare del tempo per diventare coach non vuol dire per forza voler esercitare la professione, si sono formati per acquisire competenze aggiuntive che permettano di lavorare (e far lavorare) meglio, con meno stress per tutti, capacità decisionali più rapide e ragionate, risultati che per forza poi arrivano, a livello di obiettivi raggiunti e raggiungibili.

Il cambiamento fa ancora paura

Ecco che poi il coaching si è allargato a macchia d’olio, man mano che il numero di coach cresceva, a mercati paralleli al business, alle scuole (spesso in forma di semi-volontariato, per dirigenti scolastici, insegnanti, genitori, ragazzi), alle amministrazioni pubbliche (aumentando esponenzialmente la pazienza del coach, perchè la burocrazia si sa), allo sport, al miglioramento specifico di prestazioni fisiche, alla salute. Questo è un campo particolarmente resistente ma molto promettente, dilagante verso pazienti, famiglie che supportano persone malate, operatori del settore e (infine, buoni ultimi) i medici. Anche qui vediamo dirigenti che cercano di spiegare ciò che conoscono poco a dottori che non ascoltano e quindi non comprendono: ancora una volta il cambiamento è ostico, fa paura, non lo si accoglie con fiducia, e nemmeno con curiosità. 

Trovare professionisti preparati

Dato che, come abbiamo detto, il numero dei coach praticanti è lievitato nel giro di una decina d’anni, come accertarsi di mettersi nelle mani di professionisti preparati? Il principio vale per ogni tipologia o nicchia del Coaching. Alcuni nomi sono noti perché presenti sul mercato da lungo tempo, hanno fondato scuole di coaching o regalato innumerevoli ore a progetti di volontariato, e anche per via della loro costante attività di marketing (che è pure una competenza da riconoscere al coach che emerge, basta saper distinguere tra buona comunicazione e roboanti spot pubblicitari). Un’occhiata agli elenchi degli iscritti alle varie associazioni non farà male, anche se devo riconoscere che alcuni ottimi coach non sono propriamente associazionisti, anzi se ne tengono a distanza. Il passaparola funziona sempre: se i colleghi direttori di altre aziende concorrenti o parallele magari hanno avuto esperienze con progetti di Coaching, perché non chiedere un po’ in giro? Esistono poi società di varia consulenza che annoverano tra le proprie fila ottimi professionisti del Coaching, spesso anche formatori, che non è detto che se uno è coach sia anche formatore (le due competenze si completano molto bene ma non si assorbono per osmosi). Infine, suggerisco sempre di investire (notato che non ho usato la parola “perdere”?) un po’ di tempo in qualche colloquio con gli aspiranti coach, preparandosi qualche domanda scomoda, dopo aver esplorato la storia professionale del consulente.

 

Cos’è la UNI 11601

La UNI 11601 è la Norma definita nel 2015 dall’Ente Italiano di Unificazione, che da quasi 100 anni elabora e pubblica le norme UNI in tutti i settori industriali, commerciali e del terziario. Si tratta della prima Norma italiana sul Coaching che definisce la terminologia e le caratteristiche del servizio di coaching e indica i requisiti per la fornitura di servizi di coaching per orientare e guidare i fornitori dei servizi e per favorire la scelta informata e consapevole da parte degli utilizzatori dei servizi di coaching. La norma UNI 11601 non definisce però le competenze dei professionisti coach.

 

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