di Luigi Beccaria |
Non è un mistero che, nel corso della lunga “pax americana” affermatasi nel secondo dopoguerra, i trend sociali, politici, culturali e (buoni ultimi, per essere la lentezza della regolamentazione un tratto distintivo notorio, rispetto alla rapida evoluzione della realtà fattuale) giuridici tendono ad affermarsi prima Oltreoceano. E successivamente, probabilmente anche in virtù di un “soft power” di cui in questo periodo connotato da superpotenze geopolitiche si parla molto, nel Vecchio Continente.
Abbiamo imparato, negli anni, a capire che, quando una tendenza, una tecnologia o un fenomeno si verificano negli States, presto o tardi, in forma più o meno adattata, arriveranno anche da questa parte dell’Atlantico. Anche il mondo delle risorse umane e più in generale del lavoro (e del mercato del lavoro) non è esente da questa influenza, come dimostra, da ultimo, il fenomeno descritto come delle “Grandi Dimissioni”. Sbocciato negli Usa e “importato” anche dalle nostre parti.
Allora forse le notizie rimbalzate dall’America, in particolare da quei big player (in sostanza, le big tech) che costituiscono il fiore all’occhiello dell’economia statunitense, apparentemente invulnerabili a dazi, conflitti internazionali, inflazione, che nell’ultimo anno hanno significativamente ridimensionato, se non del tutto eliminato, la possibilità per i lavoratori di fare ricorso al lavoro agile, non possono esimerci da alcune riflessioni rispetto a quanto potrà avvenire nei prossimi mesi e anni.
Il percorso dello smart working
Può essere utile comprendere come si sia arrivati allo scenario attuale. Come noto, lo smart working esisteva in Italia, sia pur in misura marginale. E in modo concettualmente sovrapposto in modo un po’ grossolano al cosiddetto “telelavoro”, al punto da ricevere una normativa ad hoc nel 2017. Purtuttavia, era notoriamente applicato da un’esigua minoranza di lavoratori. L’opinione pubblica aveva una cognizione molto nebulosa di tale configurazione, vista quasi come “esoterica” o comunque per pochi “iniziati”, depositari di qualche oscuro sapere tecnologico.
Certamente non esisteva, prima del 2020, un dibattito su larga scala circa il possibile impiego del lavoro agile quale strumento di conciliazione tra vita privata e lavoro. La svolta è notoriamente derivata dalla diffusione della pandemia di Covid-19 a partire dal febbraio 2020. Quando la possibilità di lavorare da casa evitando il contatto sociale, prediletto veicolo di contagio, ha comportato un’applicazione massiva ed emergenziale dello strumento. In quel momento, di fatto, il lavoro agile diveniva l’unica modalità per poter proseguire l’attività (almeno, ça va sans dire, quelle attività che erano compatibili). Il che ha sospeso ogni possibile interesse confliggente tra i datori e i lavoratori, poiché non sussistevano alternative se non lo stop sine die dell’attività.
Passata la buriana e affievolitisi i timori per la diffusione pandemica, grosso modo verso il 2022, gli attori coinvolti (imprese, lavoratori, sindacati), trovatisi come usciti da un periodo di “apnea”, hanno gradualmente iniziato a elaborare e riconsiderare quanto avvenuto. Pervenendo, in modo non totalmente trasversale alle rispettive categorie di appartenenza, a conclusioni radicalmente differenti.
Contrari e favorevoli al lavoro agile
Polarizzando il discorso, si può dire che sono emerse due letture (con tutte le necessarie “sfumature di grigio” intermedie). Sintetizzabili in:
- contrari: essendo venuta meno l’emergenza, e non essendo conciliabile con la natura del lavoro dipendente (e con i diritti che fanno da contrappeso ai tratti caratteristici della subordinazione, cioè ferie, permessi, indennità di malattia e infortunio, tutele giudiziali…) la libertà, la “agilità” dello smart working, che introdurrebbe surrettiziamente un’eccessiva autonomia in un contratto che di fatto è di lavoro subordinato, privando il datore anche dei poteri di controllo fisiologicamente attribuitigli dalla legge;
- favorevoli: per garantire tale modalità di lavoro una riduzione degli spostamenti e dei tempi morti, una miglior qualità di vita per i lavoratori, e potenzialmente una maggiore efficienza.
Ovviamente, è facile semplificare ritenendo che i datori di lavoro siano contrari e i lavoratori favorevoli. Ma l’esperienza insegna che gli schieramenti non sono del tutto trasversali, per essere presenti una pluralità di datori favorevoli e di dipendenti contrari, spesso e in entrambi i casi per questioni d spicciola convenienza personale, ma anche in funzione di parametri quali l’età della persona interessata, il settore di appartenenza, la collocazione geografica, le mansioni attribuite.
Verso la ritirata
Non può però non dar da pensare che alcune delle principali società americane, dunque i cui addetti, tipicamente ben pagati, svolgono attività per antonomasia eseguibili da remoto, hanno ritenuto di riconvocare, si direbbe quasi d’imperio, una buona parte dei lavoratori precedentemente adibiti al lavoro agile. Simmetricamente, anche nel più frastagliato contesto imprenditoriale italiano, con alcune eccezioni (prevalentemente afferenti al settore dei servizi), si osserva una forma di “ritirata” di tale strumento. Che probabilmente costituisce il corollario inevitabile dell’incontrollata espansione del fenomeno.
Come spesso capita, una delle cause risiede nell’abuso di uno strumento che in sé persegue finalità lodevoli. Situazione non nuova in Italia, pensando allo spregiudicato uso fatto di certi ammortizzatori sociali fino a tempi recenti. Certamente tutti quanti abbiamo assistito a scene da “LinkedIn Cringe” di persone in spiaggia che “ufficialmente” stavano rendendo la prestazione. Così come si assiste a una proliferazione di profili social lavorativi in cui viene esposta, con pari dignità alla job description, la natura “ibrida” del lavoro (la cui conseguenza logica è che qualsiasi negoziazione su future occupazioni dovrà avere acriticamente per presupposto la possibilità di lavorare da casa).
Altri problemi del lavoro agile possono derivare dall’eccesso di spersonalizzazione, soprattutto per i più giovani, auto-reclusisi in casa per lavorare in un ambiente (apparentemente?) meno stressante. In sintesi, e in definitiva, non bisogna certamente “buttare il bambino con l’acqua sporca”. I vantaggi dello smart working sono palesi e hanno riflessi potenzialmente utili su traffico, consumi, utenze, stress in generale.
Occorre sviluppare una riflessione laica, evitando le prese di posizioni ideologiche e gli “opposti estremi”. Promuovendo, laddove possibile, un sistema di contrattazione aziendale che garantisca tutti gli interessi in gioco in modo più flessibile di quanto non faccia una legge, la 81/17, divenuta vetusta prima del tempo.
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