di Elio Borgonovi e Andrea Crocioni | Non sarà perfetto, ma teniamocelo stretto: il Servizio Sanitario Nazionale ha molte criticità, ma resta un bene fondamentale che garantisce l’accesso universale alle cure.
Oggi, però, si trova sotto pressione: liste d’attesa interminabili, carenza di personale e un crescente spostamento verso il privato. Eppure, come sottolinea il professor Silvio Garattini, farmacologo e fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, il problema non si risolve demolendolo, ma difendendolo e migliorandolo.
Con lui abbiamo parlato di disuguaglianze nella sanità, del loro impatto sulla democrazia, di un diritto alla salute che sembra riguardare sempre meno persone e di come cultura e prevenzione rappresentino due pilastri per costruire un futuro più equo. Tra i fenomeni più preoccupanti degli ultimi anni vi è il progressivo aumento delle disuguaglianze, che rischia di minare lo sviluppo sociale ed economico negando ai cittadini opportunità, diritti e fiducia nel futuro.
Il diritto alla salute è sancito come universale, ma nella realtà ci troviamo di fronte a problematiche crescenti. Cosa significa per lei “disuguaglianza” nel campo della salute? Quali sono le aree più critiche?
Le disuguaglianze nel campo della salute sono molteplici. La prima è quella creata dall’intramoenia, che permette ai medici di lavorare privatamente all’interno di ospedali pubblici. Questo sistema è incompatibile con il Ssn e con la Costituzione, perché chi ha soldi ottiene subito visite e interventi, mentre chi non può permetterselo resta in lista d’attesa per mesi. È una sanità a due velocità.
Un’altra grande disuguaglianza è quella territoriale. Ci sono enormi differenze da regione a regione e in particolare tra Nord e Sud: la durata di vita in Campania è inferiore di due anni rispetto alla Lombardia, la mortalità infantile è quasi tre volte maggiore in Calabria rispetto al Trentino. Questo dimostra che il diritto alla salute in Italia è ancora lontano dall’essere davvero universale.
E la lista delle disuguaglianze non risparmia il mondo della ricerca…
Certamente. Le malattie comuni ricevono ingenti investimenti, mentre per le malattie rare (circa 7.000, con quasi 2 milioni di pazienti in Italia) le risorse sono scarse. L’industria farmaceutica non è interessata per via dei bassi profitti, e l’Unione Euopea non interviene in modo adeguato. Un’altra disuguaglianza riguarda la sperimentazione dei farmaci: gli studi preclinici sono condotti su animali maschi, mentre quelli clinici su uomini adulti maschi tra i 20 e i 60 anni, escludendo quindi bambini e anziani.
I bambini hanno un metabolismo peculiare, non sono adulti in miniatura, e gli anziani, spesso sottoposti a terapia con numerosi farmaci, sono soggetti a interazioni farmacologiche complesse che nemmeno l’IA sarebbe in grado di prevedere con certezza. Infine, c’è un evidente squilibrio di genere: i farmaci vengono testati prevalentemente sugli uomini, ma il metabolismo e le reazioni ai farmaci variano significativamente tra uomini e donne, influenzati anche dalle differenze ormonali e dalla composizione corporea. Questo porta le donne ad assumere farmaci non ottimizzati per il loro organismo, con possibili conseguenze sulla loro efficacia e sicurezza.
Dall’educazione alla sanità, dal lavoro alla cultura, sono molti gli ambiti in cui è importante, e urgente, intervenire per ridurre il divario. Le disuguaglianze sanitarie influenzano anche altri ambiti della società?
Assolutamente sì. La salute non è solo una questione medica, ma sociale ed economica. Alla radice di tutto c’è un problema culturale. Manca un’educazione sanitaria adeguata. È emblematico il fatto che in Italia non esista una Scuola Superiore di Sanità per formare i dirigenti del settore, che spesso vengono scelti per motivi politici anziché per competenze.
Inoltre, nelle scuole manca completamente l’insegnamento della salute: basterebbe un’ora a settimana in ogni classe per insegnare ai ragazzi le basi della prevenzione. Nelle università francesi e inglesi, gli studenti di medicina sono obbligati a dedicare un certo numero di ore all’insegnamento nelle scuole medie. Questo permette loro di sviluppare capacità fondamentali.
Imparano a comunicare in modo efficace, a relazionarsi con le persone e a coltivare l’empatia, una qualità indispensabile per un medico, ma purtroppo ancora troppo rara. Serve una grande rivoluzione culturale, e questa può avvenire solo attraverso la scuola: non ci sono alternative. È assurdo che non si riesca a trovare almeno un’ora alla settimana per educare i ragazzi alla salute. Il nostro sistema scolastico è fermo al passato.
Andando alla radice, quali sono le principali cause delle disuguaglianze in ambito sanitario a suo avviso?
Uno dei problemi principali è che la medicina è diventata un grande mercato. E come ogni mercato, il suo obiettivo non è ridurre i clienti, ma aumentarli. Per esempio, si abbassano continuamente i livelli considerati normali per colesterolo, pressione, glicemia, trasformando milioni di persone sane in “pazienti”. Il colesterolo alto di per sé non è una malattia, ma un fattore di rischio, eppure ci fanno credere che sia un problema da risolvere a tutti i costi con i farmaci.
Mentre si sottovaluta la prevenzione. Ad esempio, il diabete di tipo 2 è spesso evitabile con uno stile di vita sano, eppure abbiamo 4,5 milioni di diabetici in Italia. Allo stesso modo il 40% dei tumori sarebbe evitabile, ma abbiamo ancora 12 milioni di fumatori e un consumo di alcol troppo alto. Ma la nostra cultura del vino impedisce di intervenire adeguatamente. Queste sono questioni che dovrebbero essere al centro del dibattito, ma si preferisce curare piuttosto che prevenire, perché la cura è più redditizia.
Tornando alla questione dei diritti: possiamo dire che la disuguaglianza in ambito sanitario può indebolire la democrazia?
Senza dubbio. Accettare le disuguaglianze sanitarie significa accettare che una parte della popolazione sia esclusa da un diritto fondamentale. Questo crea sfiducia nelle istituzioni, allontana le persone dalla politica e riduce la partecipazione democratica. Se la gente non va a votare – e oggi il 50% degli italiani non lo fa – la democrazia diventa fragile e finisce nelle mani di pochi. Il diritto alla salute è un pilastro della democrazia. Senza un sistema sanitario equo, le persone più deboli si sentono abbandonate e perdono fiducia nello Stato.
Quali sono i possibili rimedi per ridurre queste disuguaglianze nel Sistema Sanitario Nazionale?
Il primo passo è potenziare la prevenzione che contribuisce a ridurre le liste di attesa e abbassare i costi della sanità. I medici di base dovrebbero prescrivere non solo farmaci, ma anche stili di vita sani. Abbiamo una cultura che minimizza i danni di certe abitudini. Bisogna cambiare mentalità. Poi indubbiamente servono più risorse per il Servizio Sanitario Nazionale: stipendi più alti per medici e infermieri, più personale, migliori condizioni di lavoro. Altrimenti il rischio è che il Ssn venga lentamente smantellato e che si torni a una sanità per ricchi e una per poveri.
Io sono fra quelli che per età anagrafica si ricorda ancora com’era la sanità prima dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (ndr: un sistema fondato sulle casse mutue). Nel 1978 è stato sancito un principio guida: la sanità come un bene accessibile a tutti, garantito universalmente. Ora rischiamo di tornare a un’epoca in cui chi ha i soldi può curarsi, mentre chi non li ha viene lasciato indietro. Bisogna intervenire, ma evitando, come si suol dire, di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Per concludere, il Servizio Sanitario Nazionale avrà tanti difetti, ma teniamocelo stretto…
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* Questa intervista è stata pubblicata sul numero di marzo-aprile 2025 della rivista formaFuturi.