Salari sostenibili

Adeguati livelli retributivi, in un’ottica di sostenibilità, dovrebbero accompagnarsi all’equità e quindi a una distribuzione non squilibrata, che limiti la disuguaglianza.

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di Cleopatra Gatti |

Solo dove le condizioni di lavoro sono “dignitose” e quindi solo dove esistono equità e crescita salariale, ricorda l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, si generano le condizioni per uno sviluppo sostenibile che, a sua volta, costituisce un’ulteriore spinta al miglioramento delle condizioni di lavoro, innescando così un circolo virtuoso.

La partita per lo sviluppo sostenibile dunque, si gioca su tre piani: livello, crescita e distribuzione delle retribuzioni. Vediamo dunque a che punto siamo, analizzando un’indagine realizzata da Job Pricing dedicata alle retribuzioni sostenibili, presentata a fine settembre in occasione degli Stati Generali del Mondo del Lavoro.

Le retribuzione nell’area Ocse e in Italia

Per quanto riguarda livello e crescita dei salari una comparazione delle retribuzioni su scala globale risulta piuttosto complessa. Stando all’Ocse, la retribuzione media dei Paesi membri è di 46.686 dollari, ma fra gli estremi della classifica (16.298 dollari del Messico e 66.504 dollari dell’lslanda) c’è una differenza di oltre 50.000 dollari. I dati dell’Oil ci dicono, inoltre, che il tasso di crescita dei salari reali nel 2017 era ancora sotto i valori pre-crisi e addirittura in calo nell’ultimo anno di rilevazione: il +1,8% registrato nel 2017 è il livello più basso registrato dal 2008.

Questa situazione, tuttavia, nasce da una composizione eterogenea, nella quale le economie più avanzate faticano molto, mentre l’Est Europa e l’area Apac, trainata dalla Cina, vede tassi di crescita più sostenuti. Naturalmente, i lavoratori dei Paesi più sviluppati hanno ancora salari superiori a quelli dei Paesi che inseguono, salari questi ultimi che in molti casi non possono ancora essere definiti “dignitosi”. Il gap, però, si sta riducendo.

Le retribuzioni medie annue in Italia sono, purtroppo, le più basse tra le cinque maggiori economie dell’UE, e significativamente al di sotto della media dei Paesi Ocse. Da circa un decennio, inoltre, la curva di crescita delle retribuzioni nel nostro Paese è sostanzialmente piatta e sensibilmente al di sotto di quella di tutte le economie più avanzate.

La distribuzione dei salari

Adeguati livelli retributivi, in un’ottica di sostenibilità, dovrebbero accompagnarsi all’equità e quindi a una distribuzione non squilibrata, che limiti la disuguaglianza. Le cose, tuttavia, non stanno proprio così.

A livello mondiale i problemi maggiori sono nei Paesi a basso reddito, mentre le cose vanno meglio in quelli con alti redditi, come dimostra l’analisi della distribuzione misurata col coefficiente di Gini: a fronte di un coefficiente medio di 35,5%, per i primi il valore è 47,3%, per  i secondi 26,1%. Il Paese più virtuoso è la Svezia (19,5%), il peggiore il Sud Africa (63,9%).

L’Italia si colloca nella parte “virtuosa” della classifica, al 14° posto nel ranking generale, con un coefficiente pari al 28,4%, ma peggiore degli altri Paesi con redditi elevati. Non solo: nel nostro Paese si è verificata una cospicua caduta dei salari reali annui più bassi, mentre quelli più elevati hanno di fatto tenuto. Il risultato? Un progressivo ampliamento del gap fra le retribuzioni degli estremi della curva retributiva nazionale, cioè una crescita della disuguaglianza, come dimostrano l’andamento dell’indice di Gini, costantemente cresciuto dagli anni Ottanta ad oggi.

Lavoratori poveri e ricchi

In trent’anni, dal 1985 al 2014, l’indice di Gini relativo alle retribuzioni annue è cresciuto del 21%. In particolare, la quota di lavoratori con retribuzione inferiore al 40% della mediana nazionale è passata dal 17,9% al 22,1%, mentre quella con retribuzione pari ad almeno 5 volte la mediana è più che raddoppiata, passando dallo 0,34% allo 0,89% I dati, quindi, indicano come nel mercato del lavoro italiano si siano generate e consolidate sempre maggiori disuguaglianze con l’emersione di veri e propri “fenomeni di polarizzazione fra i lavoratori e nella crescita, ai due estremi della distribuzione, di quelli che possiamo definire “working poor” e “working rich”. Anche dai dati dell’Osservatorio JobPricing emerge con chiarezza come il 93,6% dei lavoratori del settore privato nel nostro Paese percepisca una retribuzione globale annua (quindi comprensiva anche di eventuali parti variabili) inferiore a 40.000 euro lordi.

Inoltre, l’analisi delle curve retributive mette in evidenza come fra il 1° decile della curva di mercato e il 9° esista una differenza di 15.000 euro circa, ovverosia pari al 65%. Volendo calcolare il cosiddetto “multiplo retributivo” esistente fra un dirigente e un operaio in Italia si ottiene un valore pari a 9,6 volte, con la retribuzione del top manager pari a 209.956 euro lordi e quella dell’operaio a 21.853 euro.

Disuguaglianze geografiche

Naturalmente, in Italia più che altrove, la geografia ha un peso notevolissimo quando si parla di mercato del lavoro e di livelli retributivi. Negli ultimi dieci anni al Nord e al Centro il numero  di  occupati  è  cresciuto (+2,3%) mentre al Mezzogiorno è calato (-4,0%). Oggi esistono tassi di occupazione fortemente eterogenei fra le due aree del Paese, col Centro-Nord al 66,1% e il Sud fermo al 44,5%.

Le motivazioni sono riconducibili a differenze strutturali nel tessuto economico e produttivo delle due aree del Paese, che si riflettono sul lato della domanda di lavoro. Al Nord e al Centro si è avuta una crescita degli occupati in professioni qualificate, che invece non c’è stata nel Sud, dove il saldo degli occupati qualificati nel periodo 2013-18 è negativo. Non  solo, se nelle regioni più sviluppate si è assistito a un aumento del lavoro a tempo parziale, ma anche a una crescita dell’occupazione a tempo indeterminato, al Sud si è assistito, invece, a una nefasta combinazione di riduzione dei tempi indeterminati e di calo degli occupati a tempo pieno.

Il differenziale retributivo fra cima (l’area metropolitana di Milano) e fondo della classifica è di circa 9.500 euro, pari, cioè a quasi il 30%. Fra Nord e Sud il gap è del 15% Se si prendessero in considerazione le retribuzioni senza riproporzionare i part-time a full-time, dato che al Sud in media il numero di ore lavorate è inferiore che al Centro-Nord, il divario crescerebbe ulteriormente. A questa  condizione di squilibrio, infine, bisogna aggiungere il fatto che in Italia vengono stimati circa 3.700.000 rapporti di lavoro irregolari, con un tasso d’irregolarità pari al 20,9% al Sud, contro una media nazionale del 15,9% .

Le disuguaglianze di genere

Per quanto riguarda il “Gender Pay Gap” l’Oil indica un differenziale retributivo fra uomini e donne che varia dal 16% al 22%. Dai dati si può evincere che, a livello generale, il gap fra uomini e donne cresce al crescere del salario orario, anche se l’impatto decisivo in questo senso lo hanno i Paesi con alti livelli di reddito. In questi ultimi, infatti, la differenza di retribuzione oraria fra gli estremi della curva di distribuzione cresce in modo molto significativo raddoppiando o triplicando. Per contro, nei Paesi con redditi inferiori, il delta fra maschi e femmine risulta più alto fra i percettori di salari bassi. L’Europa non è certo immune dal problema delle discriminazioni retributive di genere che rimangono un fenomeno pervasivo e che impatta anche sui Paesi più sviluppati.

Per quanto riguarda l’Italia, come rilevato da JobPricing, il differenziale retributivo  fra uomini e donne è in calo, sebbene ancora molto elevato (10%): la Ral media di una lavoratrice nel nostro Paese è di 27.617 euro, quella di un lavoratore di 30.368 euro. La situazione peggiora se si considera la retribuzione non riproporzionandola sull’intero anno. Le donne, infatti, lavorano in media meno ore degli uomini (32 ore settimanali pro-capite contro 40 dei colleghi maschi), poiché, come messo in luce dall’Istat, la loro posizione nel mercato del lavoro “è influenzata dal ruolo ricoperto in famiglia” e il part-time involontario “continua a essere una caratteristica dell’occupazione femminile”.

Le prospettive dei giovani

Per chi in Italia è giovane (meno di 35 anni), la questione non è tanto il livello di retribuzione, ma avere uno stipendio, visto il grave problema di disoccupazione giovanile, superiore al 30%. Non solo, stando ai dati Istat, in Italia i lavoratori sono sempre più “anziani” e la componente dei giovani sul totale degli occupati è oggi inferiore a dieci anni fa.

Rispetto a questo quadro, le dinamiche dei salari dei giovani hanno evidenziato un deterioramento significativo nel tempo, nonostante un livello medio d’istruzione superiore: fra il 1983 e il 2015 per i giovani il valore dei salari medi annui rispetto a quello degli over 50 è passato dal 70% al 50%. I giovani italiani riescono ad accaparrarsi parti sempre più piccole della torta dei salari, a beneficio della categoria degli over 50. Inoltre, se consideriamo il salario d’ingresso, questo è diminuito nello stesso periodo di circa il 20%.

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