di Marina Fabiano |
Ci stavamo giusto ricaricando attivamente per tornare verso una cauta normalità, quando un nuovo evento terrificante ha colpito il nostro piccolo mondo confortevole e protetto. Certo, ha scosso ben più gravemente le persone direttamente coinvolte, dagli attaccati agli attaccanti ignari del perché, ma come cerchi concentrici nell’acqua stagnante le ripercussioni arrivano ovunque.
Mai tranquilli! Ci siamo detti sospirando, scambiandoci inutili lamentele. Ci stiamo affacciando al solito lavoro, che tanto solito non lo è più, date le nuove regole di comportamento e di svolgimento (un po’ da casa, un po’ da uffici rinnovati o ridotti, dove i contatti sono guardinghi, diffidenti, mancano di spontaneità). Ma tant’è, dobbiamo riabituarci a una nuova forma di colleghitudine. Ad approcci diversi, per poi – si spera – con il tempo e le buone notizie, a ritornare ognuno a sfoggiare il proprio carattere, dall’esuberante all’introverso, dal generoso al trattenuto, dall’istintivo al riflessivo, e qui ne potremmo elencare con fantasia.
Le nuove paure
Oltre alla ripresa lavorativa, con tutti i nuovi problemi che ha portato con sé, cominciamo timidamente a pianificare tempi liberi, vacanze, senz’altro più ridotte e più vicine, ma sempre col desiderio di impiegare questi tempi facendo ciò che ci aggrada meglio. Siamo sicuri che andrà così? Non ci farei troppo affidamento, presi come siamo dai troppi doveri che stringono e soffocano come catene. Il lavoro è diventato infinito, a orario continuato, sempre connessi, con le aspettative altrui che non solo si esprimono a parole, ma spesso assumono la forma di trilli, sveglie, gong.
La paura – sì, comincia ad essere proprio paura – di dimenticare qualche passaggio delle nostre mille incombenze ci porta verso una nuova situazione di stress. Solo i bambini – credo, dopo aver subìto a loro volta pesanti prigionie didattiche – hanno ancora una corretta percezione della libertà temporale e sono capaci di riemergere con i loro atteggiamenti sbruffeggianti, o scatenati, o semplicemente naturali e liberi, facendo soprattutto ciò che gli va di fare.
La libertà di essere
Come riuscire quindi a riprenderci quelle libertà che la pandemia, le restrizioni, le preoccupazioni, il lavoro perenne ci hanno tolto? L’idea è diventata visibile grazie a una newsletter (lo so, ne leggo troppe, ma ognuno perde il proprio tempo come crede meglio, no?) di Luisa Carrada, grazie a un blog di Ann Handley e a un articolo del New York Times. Erano collegati da un filo sottile, quasi da radici sotterranee. La metafora agricola mi è subito piaciuta: parla di “tempo a maggese”, necessario al terreno per coltivare qualsiasi cosa.
Come mi è piaciuta la password per connettermi al wifi di un agriturismo perso nel nulla della campagna inglese: “putdownthephonetalktoyourfamily”. Non è pertinente, ma volevo condividerlo. Il terreno, per produrre, necessita di un periodo di riposo. Noi, per lavorare bene, abbiamo bisogno di riposare, leggere, documentarci, approfondire: scollegarci per riconnetterci. Hai presente quando spegni il tuo oggetto tecnologico e dopo un pò lo riavvii, e – miracolo! – funziona meglio? È un lavoro invisibile, indispensabile per creare, pensare alle strategie migliori, prendere decisioni. La produttività in quanto tale (fare, fare, fare) diventa improduttiva.
Quale forma lavorativa?
D’altra parte il modo di lavorare ci è vorticosamente cambiato addosso. L’abbiamo lasciato in sospeso nel 2019, quando bastava prendersi un periodo di stacco per sentirci davvero in vacanza. L’abbiamo attraversato, il lavoro, nel 2020 tutto attorcigliato in telefonate, connessioni via zoom, scrivanie precarie tra bambini vocianti e consegne a domicilio, o al contrario in stress da solitudine. Nel 2021/2022 ci stavamo giusto ribellando e riprendendo qualche spazio di libertà personale quando nuovi sensati timori ci hanno riconnesso mani e piedi con l’economia che c’è, che senza non possiamo sopravvivere. Il vecchio caro lavoro dalle 9 alle 5 è morto.
Ci stiamo dimenticando che potremmo fare qualcosa di veramente importante proprio quando non stiamo facendo nulla di importante.
Pedalando e leggendo
Anche questa volta, un libro che non c’entra nulla con il coaching nè con la produttività, mi ha accompagnato in queste riflessioni: “24 storie di bici”. Gli autori sono Alessandra Schepisi, giornalista di Radio24, e Pierpaolo Romio, imprenditore. Lui, Pierpaolo, è un tour operator specializzato in viaggi in bici (Girolibero.it e Zeppelin.it). Oltre a organizzare vacanze pedalanti offre un servizio di noleggio e manutenzione di biciclette. Di capi d’azienda come lui non ce ne sono moltissimi: è perciò che ciò che racconta, ciò che trasmette, diventa particolarmente interessante e applicabile a piccole/medie imprese. Di sicuro ci sono spunti anche per aziende medio grandi o grandissime.
L’autore imprenditore ha messo in pausa la sua azienda durante la pandemia, ispirandosi al tempo di maggese, per ideare la ripartenza e cercare nuove ispirazioni. Una bella mossa (un bell’investimento!), che molte aziende potrebbero replicare con qualche settimana di sospensione dalle solite attività fuori dal tradizionale periodo estivo o natalizio, e con il preciso scopo di ricaricare i cervelli facendo niente di importante. Un tempo c’erano i seminari organizzati, con workshop, laboratori e divertimenti. Si stava via dall’ufficio tre o quattro giorni, si passava del tempo formativo e relazionale, si tornava a casa con miriadi di idee per la testa. Poi basta.
Ma torniamo alla lettura e ai suoi insegnamenti. Il libro in sé è gradevolissimo, pieno di narrazioni e spunti lì per essere afferrati e replicati tramite i 24 personaggi raccontati, alcuni noti, altri meno, per i quali la bicicletta rappresenta una risorsa significativa nella propria vita. Ciclisti sportivi, cicloviaggiatori estremi, cicloturisti amanti delle vacanze organizzate, cicloattivisti, imprenditori, pianificatori urbani. Un libro che testimonia la passione, ma che è anche un manuale per scoprire la bici.
Cosa ne ricaviamo?
Qui si legge dunque di innovazione, quella delle idee, dei materiali, delle difficoltà che si trasformano in opportunità di business. Si parla di libertà ed emancipazione. Sono raccontate più donne che uomini, da Alfonsina Strada, prima e unica donna a partecipare al Giro d’Italia nel 1924, alle imprenditrici del settore, tra abbigliamento frivolo e comodo e bike cargo con i bambini dentro, dalle indomite cicliste afgane alle ragazze di tutte le età del movimento di pedalatrici fantasiose. Una curiosità: tra i ladri di bike sharing non è stata beccata nemmeno una donna. Si sottolinea il coraggio raccontando di una traversata della Siberia in solitaria, e di una signora cicciottella e diabetica, che di punto in bianco si mette in sella e da Gemona del Friuli arriva a Lampedusa.
Si evidenzia l’ingegno italiano: è italiano l’assessore alla mobilità di Valencia, che l’ha resa una delle città più bike-friendly d’Europa; è italiano l’AD dell’azienda francese leader dei contatori di ciclisti; è italiana l’azienda che vende più e-bike in Europa. D’altra parte, dicono che la curiosità sia il punto di partenza della creatività, che a sua volta nasce dall’interessarsi di argomenti che non c’entrano nulla con il nostro lavoro. La teoria dice che non stiamo inventando nulla di nuovo da un pezzo, che qualsiasi idea si appoggia su esperienze già accadute, che abbiamo accumulato e accantonato.
A un certo punto il nostro cervello si accende, ricorda, rielabora: e voilà, la nuova idea inizia a prendere forma.















