Coronavirus e licenziamenti: qualche riflessione

La politica economica adottata dal Governo per fronteggiare la crisi seguita alla pandemia è basata su ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro e divieto di licenziamenti sorretti da motivazioni economiche. Funzionerà?

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di Luigi Beccaria* |

Da mesi il mondo è precipitato in una pandemia che non ha precedenti, almeno nella memoria degli esseri viventi attualmente presenti sul pianeta.

In diverso ordine e misura, ciascuno Stato (o anche entità sovranazionale, visti i recentissimi progressi compiuti dall’Unione Europea con l’approvazione del cosiddetto “Recovery Fund”) si è trovato ad attuare un complesso bilanciamento tra le esigenze di tutela sanitaria dei cittadini (ottenute in larga parte dall’impiego di misure restrittive delle libertà personali, secondo uno schema già ben conosciuto fin dalla peste del quattordicesimo secolo) e quelle di salvaguardia dell’economia.

Ogni Stato, in funzione della gravità della situazione epidemiologica, ma anche in ragione dell’ideologia dominante nella classe dirigente, ha stabilito come collocarsi all’interno di una polarità costituita da un lato dalla chiusura totale, con conseguente travolgimento dell’economia e perdita dell’occupazione, e dalla parte opposta dalla negazione assoluta dell’emergenza sanitaria, nel tentativo di contenere il debito pubblico (nel limite del possibile, considerando che la maggior parte degli Stati ha adottato politiche protezionistiche, con tutte le inevitabili ripercussioni in tema di esportazioni e in generale di connessione delle economie).

La politica economica italiana

Limitando il nostro campo d’indagine allo Stato italiano, abbiamo riflettuto qualche mese fa (con il conforto di tutte le varie associazioni di categoria, in particolare i consulenti del lavoro, che ha profuso incredibili sforzi, soprattutto nella persona del Presidente Marina Calderone, nel portare all’attenzione delle istituzioni le criticità connesse all’eccessiva burocratizzazione delle procedure per l’ottenimento degli ammortizzatori sociali) sulla follia costituita dall’istituzione di un “sistema a cinque teste” per la cassa integrazione, quando, sin da subito e in modo lungimirante, i tecnici avevano proposto un ammortizzatore sociale unico, con procedura semplificata.

Per usare le parole del Presidente dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano, Potito di Nunzio, si sono riciclati “in tempi di guerra” strumenti che già sono inefficienti “in tempi di pace”. Criticità burocratiche a parte, vediamo l’insieme di politiche economiche che il Governo ha assunto e sta per assumere.

Siamo riusciti, oltre ogni aspettativa, a spuntare delle ottime condizioni economiche dai negoziati europei, ma saremo altrettanto bravi a gestire i soldi ottenuti?

Al netto di tutte le complicazioni burocratiche, che comunque non costituiscono un aspetto solo formale della questione, in quanto suscettibili di comportare, nella sostanza, ritardi concreti nei pagamenti ai beneficiari, si può dire che la politica economica del governo è stata la seguente: ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro per tutti i dipendenti (secondo la “penta partizione” ormai tristemente nota), ciclicamente prorogati in funzione del reperimento delle risorse all’uopo necessarie (e con il corredo di una lunga serie di ulteriori sussidi esclusivamente “a debito” per lo Stato) e, parallelamente, divieto di licenziamenti sorretti da motivazioni economiche.

Un divieto di licenziamenti così esteso, fissato per legge, costituisce un unicum assoluto nel panorama legislativo nostrano, specialmente se pensiamo che in Italia, Paese improntato costituzionalmente a principi di matrice socialdemocratica, sino al 1966 era possibile addirittura licenziare i dipendenti ad nutum e in cui il trend della legislazione giuslavoristica, in seguito all’emanazione del D.Lgs. 23/2015, nel quadro del Jobs Act, persegue maggiormente il principio europeo della flexicurity, per cui il recesso del datore di lavoro viene in qualche modo facilitato, con la contestuale percezione, da parte del lavoratore licenziato, di ammortizzatori sociali (Naspi) idonei a salvaguardarne la condizione economica in attesa di una ricollocazione.

Una questione di sostenibilità

La finalità di fondo della linea adottata dal Governo è in qualche modo lodevole, sebbene suscettibile di generare alcune distorsioni nella prassi (ad esempio, i percettori di reddito di cittadinanza, che sono sostanzialmente pagati per non fare niente, ricevono puntualmente ogni mese il loro assegno, mentre i dipendenti in cassa integrazione hanno dovuto attendere mesi per riceverlo), ma analizzando il quadro economico in modo più ampio, ci si chiede quanto questa situazione possa essere sostenibile. Ciò per una pluralità di motivi. Il primo e più importante è costituito dall’effetto “pentola a pressione”: tenendo conto che i licenziamenti non potranno essere bloccati sine die, più tempo si aspetta a sbloccarli, più dirompente sarà l’effetto.

Le principali stime prevedono milioni di nuovi disoccupati: un po’ come i degenti della sindrome da Coronavirus, sarebbe stato meglio trattarli in modo scaglionato, anziché tutti insieme. Ci sono poi effetti collaterali da non sottovalutare: la pioggia di sussidi configura di fatto un aumento per debito dello Stato, senza che a ciò corrisponda alcun aumento di produttività; dà la possibilità a una minoranza di imprenditori disonesti di far lavorare i propri dipendenti facendoli formalmente figurare in cassa integrazione; incentiva a procedure espulsive artefatte (ad esempio inventando infrazioni disciplinari “finte” teleologicamente indirizzate a licenziare disciplinarmente il dipendente, che a sua volta accetta, in quanto la Naspi ha durata maggiore e maggiore puntualità di pagamento rispetto alla cassa integrazione).

Quali sono le soluzioni? In larga parte quelle, rimaste inascoltate, indicate dalla task force guidata da Vittorio Colao e già applicate in altre realtà: incentivi alle imprese che non usufruiscono della cassa integrazione; decontribuzione; digitalizzazione; regolamentazione dello smart working in modo da conciliare correttamente vita privata e lavoro senza sacrificare la produttività; assunzione dei percettori di sussidi nei servizi pubblici essenziali che arrancano (poste, viabilità); investimenti in infrastrutture, energie rinnovabili e dispositivi di protezione individuale per le aziende.

Il negoziato svolto da Giuseppe Conte sul piano europeo ci dà una grande possibilità di dare torto ai paesi cosiddetti ‘frugali’: non perdiamola.

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* Luigi Beccaria è partner di Studio Elit, collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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