Allenarsi a dare tutto, sempre

Dare sempre qualcosa in più, una volta di più: è questa la lezione più importante che Maurizia Cacciatori ha imparato sui campi da pallavolo. Ed è questo il principio che oggi, a quasi quindici anni dal suo ultimo palleggio da professionista, mette in pratica come relatrice aziendale.

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di Virna Bottarelli |

Anche solo sentirla parlare al telefono dà carica. Sarà per questo che è stata una delle pallavoliste italiane più forti (Miglior Palleggiatrice al mondo nel 1998) e capitana della Nazionale. Eppure, non le piace essere definita una “motivatrice”, piuttosto, pensa che il suo ruolo oggi sia “raccontare esperienze” e trasmettere a chi la ascolta la voglia di mettersi in gioco.

Maurizia Cacciatori, 47 anni, si è avvicinata al mondo delle Risorse Umane già all’epoca della sua carriera sportiva: “Anche quando ero in attività venivo interpellata dalle aziende, che volevano capire come, da capitana della Nazionale di volley, gestivo il mio team”, racconta, spiegando di avere sempre accettato gli inviti a salire sul palco con grande entusiasmo e di avere sempre creduto nel parallelismo tra mondo dello sport e mondo aziendale.

“Finita la carriera agonistica, ho lavorato nell’ambito della comunicazione, come commentatrice sportiva. Oggi mi sento a mio agio nel ruolo di relatrice aziendale, perché posso portare le mie esperienze, raccontare le storie che ho condiviso con squadre vincenti e meno vincenti, i momenti di difficoltà che insieme alle compagne abbiamo saputo superare. Insomma, parlo di un vissuto che torna molto utile nell’ambito delle soft skill”.

Ricordi il tuo debutto come relatrice aziendale?

Ho un’immagine molto forte di una presentazione che feci con Pfizer, in una convention dove per la prima volta avrei dovuto parlare per un paio d’ore: una prova ben diversa da quelle che ho affrontato per tanti anni sul campo, perché lì sarei stata da sola, non era il gioco di squadra al quale ero abituata. Mi ero molto preparata, proprio come quando ci si concentra per un match, e pensavo di avere tutto sotto controllo, ma una volta salita sul palco ho sentito una forte emozione, che mi ha riportato con la mente nel palazzetto di Sidney, dove nel 2000 giocammo le Olimpiadi. Allora mi sono detta che potevo farcela anche in quel contesto, vivendo comunque l’emozione del momento.

Come ti sei preparata per diventare una professionista anche nell’ambito della formazione aziendale?

Ho fatto molta formazione sul campo. Per diversi anni ho collaborato con Bosch, lavorando a progetti educativi nelle scuole e nelle Università. È stato proprio Roberto Zecchino, Vicepresidente Risorse Umane e Organizzazione del Gruppo Bosch, a darmi l’opportunità di allenare le mie capacità comunicative davanti a una platea. Ho poi un background di studi in lingue e comunicazione, che comunque mi è utile, visto che tengo speech anche in inglese e in spagnolo.

Quali sono, tra gli insegnamenti tratti dallo sport, quelli che sarebbe bene trasferire anche all’ambito professionale?

Con lo sport si acquisisce la capacità di leggere le situazioni e agire di conseguenza e ci si mette continuamente in discussione, perché si impara a conoscere i propri limiti e ci si danno degli obiettivi per spingerli sempre un po’ più in là. C’è poi un elemento fondamentale che lo sport insegna e che vale la pena mutuare anche in ambito lavorativo: lo spirito di sacrificio.

Nel mio caso l’ho appreso fin da ragazzina e, quasi senza accorgermene, l’ho fatto mio. Tutti gli allenatori che ho avuto, benché di provenienza diversa e ognuno a modo proprio, ripetevano lo stesso concetto: dai di più, ancora di più. Da giovani, è normale, si percepisce solo la fatica, ma da adulti si comprende quanto il sapersi sacrificare, il saper sopportare uno sforzo fisico e mentale, sia un valore da apprezzare. Ecco perché ribadisco sempre il concetto che nessun dettaglio va trascurato. A volte vedo realtà aziendali nelle quali non si insiste, si lascia perdere, si dà per scontato che una persona non possa cambiare o migliorare: è sbagliato, bisogna sempre dare il 100%, anche dando l’esempio, essendoci sempre, indipendentemente dal ruolo che si ricopre.

Quando interagisci con un manager o con un team aziendale, riesci a percepire se hai davanti delle persone che condividono la tua mentalità sportiva?

Sì, ma perché ho allenato molto l’empatia durante la mia carriera sportiva. Confrontarmi con molte persone, di continuo, per molti anni, mi ha aiutato a saper leggere i tanti dettagli di chi ho di fronte, anche quando mi rapporto con un manager d’azienda.

Ho giocato con ragazze che arrivavano da tutto il mondo, con mentalità e caratteri diversi l’una dall’altra, ma ho dovuto imparare a capirle e a tirare fuori il meglio da ognuna di loro, perché era ciò di cui aveva bisogno la squadra. Non è sempre stato facile, ma a ispirarmi era il principio secondo il quale tutte indossavamo la stessa maglia e avevamo lo stesso obiettivo: anche la compagna con la quale non passeresti un minuto del tuo tempo libero, perché non hai alcuna affinità con lei, sul campo è una tua alleata.

Con che tipo di aziende collabori? L’attenzione per le risorse umane, nel senso più ampio del termine, è “una questione” solo per multinazionali?

Lavoro principalmente con grandi aziende e, in generale, con realtà che hanno una vision, perché investono nelle persone e guardano avanti. Il valore della risorsa umana è imprescindibile: è l’azienda che deve essere fatta per l’individuo, non il contrario. Laddove le persone non sono capite, i team non sono motivati, non ci sono gli strumenti giusti per lavorare bene e i risultati non arrivano. Nel periodo di lockdown, però, che ci ha tenuti fisicamente distanti e ci ha fatto sentire forse più forte il bisogno di restare in contatto, la predisposizione a dare valore alle persone è cresciuta.

A proposito della pandemia che ci ha colpiti, hai detto: “Non abbiamo alibi né scuse per tirarci indietro, ma solamente volontà e determinazione per entrare in campo e vincere la nostra partita”. Come stai affrontando, professionalmente parlando, questa fase?

Il mio modo di lavorare prevede, normalmente, di stare in mezzo alle persone. Quando è iniziato il lockdown, anche se, un po’ come tutti, non immaginavo ci potesse essere uno stop così lungo, ho capito che dovevo cambiare la mia metodologia di interagire: del resto ho parlato per anni di cambiamento e ho pensato questa fosse una buona occasione per metterlo in pratica.

Ho quindi iniziato a lavorare da remoto, trasformando i miei interventi in eventi a distanza, registrando i miei speech da casa, con tutti gli inconvenienti possibili, dalla linea dati che salta ai figli che litigano alle mie spalle senza che io, concentrata sui miei interventi, me ne accorga. Ma, forse, proprio queste imperfezioni hanno “umanizzato” il lavoro e i rapporti professionali: è un aspetto positivo che spero non vada dimenticato, così come spero non ci scorderemo il fatto di aver condiviso tutti un momento di profonda sofferenza per quanto accaduto con la pandemia.

Da parte delle aziende e dei temi sui quali ti chiedono di intervenire, invece, è cambiato qualcosa con la pandemia?

Durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile mi chiedevano sempre di intervenire sul tema del cambiamento. Poi ci siamo quasi abituati a quel nuovo modo di agire e vivere e il cambiamento non è più la novità.

In questa fase va per la maggiore la leadership, che per me significa non tanto essere una guida e farsi seguire ma essere leader di noi stessi e saper alimentare il gioco di squadra, perché è questo che fa la differenza, soprattutto nei momenti di difficoltà come quello attuale. La collaborazione, con pochi “se” e nessun “ma”, è la chiave per affrontare la realtà e superare le criticità.

Chiudiamo con una battuta: tra una vittoria conquistata al tie-break e uno speech ben riuscito, che cosa dà più soddisfazione?

Quando esci da una partita che hai vinto, magari con grande fatica, ed entri nello spogliatoio, tiri le somme di quello che è andato bene e ti senti soddisfatta. Ma la sensazione è simile anche quando finisci uno speech per il quale ti sei tanto preparata e nel quale hai messo tanta passione. Anche oggi, quando scendo dal palco o, meglio, spengo la webcam e stacco il collegamento, è un po’ come tornare a sedersi sulla panca dello spogliatoio a godersi la vittoria.

Chi è Maurizia Cacciatori

È nata a Carrara nel 1973 ed è una donna immagine dello sport italiano. Maurizia Cacciatori ha vestito 228 volte la maglia della Nazionale maurizia cacciatoridi pallavolo e da Capitana della squadra, oltre ad aver partecipato alle Olimpiadi di Sidney nel 2000, ha vinto un Oro ai Giochi del Mediterraneo, un Bronzo e un Argento agli Europei rispettivamente del 1999 e del 2001. Dopo aver militato nella squadra della sua città, negli anni Novanta ha giocato a Perugia, Agrigento e Bergamo, per poi trasferirsi in Spagna e chiudere la carriera nel 2007. Oggi si occupa di formazione manageriale, tenendo interventi su temi come il brain storming e il problem solving, lo spirito d’identità di gruppo, la gestione delle squadre al femminile, la leadership.

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