Come è cambiato il lavoro degli italiani

Le condizioni lavorative si sono deteriorate e tanti cambiamenti hanno modificato profondamente il rapporto degli italiani con il lavoro. È quanto emerge dal rapporto “Gli italiani e il lavoro dopo la grande emergenza”, realizzato da Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.

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crisi del lavoro

di Laura Reggiani |

Stremati da un anno eccezionale, di cambiamenti e piccole rivoluzioni del lavoro, preoccupati per un futuro ancora incerto, in cui l’ansia personale amplifica i timori diffusi per una ripresa che appare ai più ancora molto lontana. Ma anche rinnovati nelle competenze e nelle modalità di organizzare la propria dimensione lavorativa, mai come in quest’anno stravolta e divenuta centrale nella vita di tanti italiani.

È ciò che emerge dall’indagine condotta a metà aprile da Fondazione Studi Consulenti del Lavoro su un campione rappresentativo di occupati, tra chi è sopravvissuto a un anno drammatico, che ha “lasciato sul campo” quasi un milione di occupati e che rischia di lasciarne altrettanti quando lo sblocco dei licenziamenti verrà meno. Quello prevalente è un mood che oscilla tra la preoccupazione (29,6%) e la stanchezza profonda (20%), che sfocia in rabbia (8,2%) fino alla disperazione (4,1%) tra quei lavoratori che, della crisi, hanno pagato il costo più alto. Sentimenti più che coerenti con l’anno trascorso, che ha visto fortemente deteriorate le condizioni di lavoro, a fronte di un affanno crescente a inseguire i tanti cambiamenti che nel rapido succedersi degli eventi, hanno modificato il rapporto degli italiani con il lavoro.

Lo scenario del lavoro in Italia

A metà aprile 1,8 milioni di occupati ancora non lavorano, perché interessati da sospensioni di attività o cassa integrazione; di questi, 800mila sono fermi da più di tre mesi. Si tratta dell’8% dei lavoratori, a cui si aggiunge un’altra quota, il 24,6% che, pur lavorando, lo fa in condizioni anomale, con orari ridotti, giorni alternati, non essendo tornato alla piena normalità. Complessivamente, un terzo dei lavoratori (32,6%) vive ancora una situazione emergenziale, rispecchiando la fotografia di un anno che ha visto, nell’alternanza delle chiusure e delle riprese, circa il 36,4% sospendere la propria attività per un periodo di tempo prolungato.

L’effetto sui redditi, pur attenuato dall’eccezionalità delle misure messe in campo, tra Cig, ristori e bonus, è stato devastante. Circa 7,5 milioni di lavoratori (il 32,5%) hanno visto diminuire il proprio reddito, il 10,8% per un importo superiore al 30%, in un quadro estremamente differenziato di situazioni, in cui emergono con evidenza le maggiori criticità degli autonomi: tra questi, il 53,5% segnala una riduzione delle entrate, che per più di un quarto (25,5%) è stata superiore al 30%. Ancora più pesanti sono stati i riflessi sull’economia famigliare, giunta all’appuntamento con la crisi dopo un decennio di bassa crescita dei salari, che ha fatto lievitare le difficoltà delle famiglie dei lavoratori. In un anno in cui larga parte dei consumi – dal tempo libero, ai trasporti, alla cultura – è stato inaccessibile, il 56,1% dei lavoratori afferma di avere avuto problemi a far fronte alle spese famigliari: e se il 44,2% ha ridotto quelle non necessarie, il 16,7% ha invece dovuto tagliare consumi essenziali.

Quello passato è stato un anno di vere e proprie rivoluzioni per il lavoro degli italiani che, a partire dallo Smart Working, nelle sue tante e variegate declinazioni, hanno impattato profondamente su organizzazione, competenze e cultura del lavoro degli italiani.

Il primo dato che emerge con forza dalla lettura del rapporto è l’accelerazione nel processo di alfabetizzazione digitale degli italiani. Spinti dall’esigenza di relazionarsi con un mercato trasferitosi nell’arco di pochi giorni dalla piazza alla rete, o trovatisi nell’emergenza di allestire una postazione casalinga per lavorare a distanza, in tanti hanno fatto i conti con i limiti delle proprie conoscenze tecnologiche e digitali. Con il risultato che, dopo un anno, quattro lavoratori su dieci le hanno nettamente migliorate, con un vero e proprio balzo in avanti tra i gruppi partiti più svantaggiati.

Un cambio di passo quanto mai necessario, considerato il ritardo storico dell’Italia su questo fronte, indotto dalla forte innovazione nei contenuti e nelle modalità di lavoro avvenuta per il 40,5% dei lavoratori, che ha comportato parallelamente anche un aumento generalizzato del carico di lavoro (41,6%), più responsabilità e autonomia (37,9%), e maggiore focalizzazione su obiettivi e risultati (37,4%). Ma che, al tempo stesso, ha penalizzato il clima e le relazioni nell’ambiente di lavoro, risultati peggiorati per il 30,4% dei lavoratori. In un anno in cui i tanti cambiamenti intervenuti hanno portato più di un terzo a mettere ancora più al centro della propria vita il lavoro (il 35,8% afferma che è cresciuta l’importanza che danno a tale sfera, contro il 12,9% che l’ha vista ridurre), non si registra un aumento della soddisfazione connessa che, anzi, risulta mediamente diminuita per il 31,9% e aumentata solo per il 24,4%.

I driver della trasformazione

In questo scenario che fotografa il sentimento degli italiani nella delicata fase di passaggio in corso, sono però rinvenibili tre grandi driver di trasformazione che segneranno il corso del lavoro in Italia nei prossimi anni, non senza contraddizioni e criticità.

1| Nuovi modelli organizzativi

Il primo riguarda la trasformazione dei modelli organizzativi del lavoro, di cui la diffusione su larga scala del lavoro agile rappresenta la forma più visibile, ma non l’unica. Sono 7,3 milioni (31,6% del totale) gli occupati che, in forma ibrida (16,8%) o esclusiva (14,8%) lavorano da casa: i più, stabilmente dall’inizio della pandemia. Un’esperienza che ha stravolto la vita di aziende e lavoratori e che, passata l’euforia iniziale, si presenta oggi contraddittoria.

Da un lato gli smart worker ne apprezzano gli indiscutibili benefici, primo fra tutti la possibilità di armonizzare meglio vita privata e lavorativa, che ha permesso a molti di dedicare più tempo ai propri interessi (35,1%), ricongiungersi con famigliari o amici (28,2%), lavorare in luoghi diversi dall’abitazione, anche di vacanza (27%). Dall’altro lato, iniziano ad emergere con forza le controindicazioni, soprattutto in termini professionali: circa la metà degli smart worker lamenta lo sconfinamento dei tempi di lavoro nel privato, l’indebolimento delle relazioni con i colleghi, il sovraccarico e lo stress da prestazione indotto dal venire meno della presenza come “misuratore di risultato”.

Il 47% inizia a sentirsi marginalizzato rispetto alle dinamiche aziendali, mentre vi è un 40% che parla di vera e propria disaffezione verso il lavoro. Anche l’inadeguatezza delle postazioni domestiche inizia a farsi sentire: sono il 48,3% i lavoratori che iniziano ad avvertire disturbi fisici derivanti dall’Home Working. Si capisce pertanto perché il giudizio degli italiani appaia fortemente polarizzato, tra chi promuove il nuovo modello di lavoro e chi al contrario lo boccia. Con l’esito che 4 italiani su 10 sarebbero contenti di tornare in presenza, mentre il 16,7% (ma tra i giovani la percentuale arriva al 34%) lo considera ormai un “punto di non ritorno” nella propria vita professionale: pur di continuare a lavorare da casa il 10,7% cercherebbe un’altra occupazione mentre il 6% sarebbe disposto a farsi abbassare lo stipendio o addirittura lasciare il lavoro.

2 | La centralità delle competenze

Il secondo dato che emerge dalla lettura della ricerca è la centralità riconosciuta dagli italiani al valore delle competenze. La paura di perdere il lavoro, ma soprattutto di non ritrovarne un altro, il confrontarsi con i propri limiti professionali, se da un lato ha portato ad uno sforzo di aggiornamento importante, per non restare indietro, dall’altro ha messo al centro dell’attenzione degli italiani il tema delle competenze, considerate dalla gran parte dei lavoratori decisive nel garantire accesso e permanenza nell’occupazione.

Giovani e anziani riconoscono alla competenza, maturata dall’esperienza o plasmata dalla freschezza degli studi, l’unico vero strumento di protezione, in un mercato del lavoro divenuto mai come quest’anno instabile. Alla richiesta di indicare quali siano i fattori più importanti per mantenere o trovare un’occupazione, il 39,5% dei lavoratori indica al primo posto “l’essere competenti”, seguito, al terzo (30,6%), da “l’avere le competenze giuste che servono alle imprese”. E se al secondo spicca l’indicazione della soft skill per eccellenza – l’adattabilità (34,9%), solo un quarto (23,7%) indica al quinto posto la garanzia offerta da un contratto a tempo indeterminato, mentre il 14,2% pensa che possa essere utile conoscere e saper tutelare i propri diritti. Una conquista importante, almeno in termini di consapevolezza, per un Paese dove il tema della formazione, a tutti i suoi livelli (di base e continua), è sempre stato marginale. E che si troverà a breve a fare i conti, se gli obiettivi del Recovery Plan prenderanno forma, con un fabbisogno di professionalità altamente qualificato che non è detto il mercato sia in grado di offrire. Da questo punto di vista, l’indagine offre uno spaccato poco incoraggiante: la metà degli italiani reputa di avere un profilo appetibile sul mercato, o perché fortemente in- novativo, quindi richiesto dalle aziende (27,7%), o molto specialistico, difficilmente sostituibile (25,9%). Il 46% degli occupati percepisce le proprie competenze inadeguate: il 24,1% dichiara di avere un profilo molto generico, mentre il 22,2% lo giudica obsoleto, poco o nulla ricercato dalle aziende.

3 | L’aumento delle disuguaglianze

Un altro fenomeno che rischia di radicarsi nel mondo del lavoro è legato alla crescita dei divari e all’aumento delle disuguaglianze. Si avverte infatti un disagio crescente nei segmenti meno qualificati del lavoro, che hanno visto in misura molto più rilevante contrarre il reddito (39,3%), portando ben il 74,5% a dover tagliare spese e consumi. Alle pesanti ricadute occupazionali ed economiche della pandemia, si è accompagnata una maggiore estraneità ai processi di innovazione e cambiamento che hanno interessato il lavoro, confinando questi lavoratori in una situazione di limbo e di attesa, poco funzionale a rafforzare il proprio posizionamento in un mercato del lavoro che uscirà dalla pandemia sicuramente più competitivo di prima.

Di contro, il lavoro più qualificato ha registrato non solo una netta tenuta, sia in termini occupazionali che retributivi, ma è stato più estesamente interessato dalla sfida dell’innovazione a tutti i suoi livelli, uscendone di certo più stressato e affaticato, ma anche molto più rafforzato in termini professionali. Non servono i numeri dell’indagine per fare emergere la grande criticità in cui versano i lavoratori autonomi e i precari rispetto ai dipendenti, che vedono al loro interno ulteriormente divaricate le situazioni tra chi lavora nella PA e chi nel privato. Per quanto riguarda invece le donne, la ricerca evidenzia la maggiore instabilità a cui sono andate incontro, assieme a un minore coinvolgimento nei processi di innovazione del lavoro. Solo il 62% delle donne (contro il 71,4% degli uomini) è tornata a lavorare normalmente, mentre per quasi una su dieci l’attività è al momento ancora sospesa.

Le paure per il futuro

Gli italiani sembrano arrivati al loro appuntamento con la ripartenza stremati. Solo il 14,3% si dichiara pronto a ripartire. La paura per l’incognita che riserva il futuro del lavoro prende il sopravvento: circa un milione, tra dipendenti e autonomi, è convinto di perdere il lavoro nei prossimi mesi. E se a questi si aggiungono quanti temono che lo sblocco dei licenziamenti abbia ricadute anche su di loro, si sommano altri 2,6 milioni di dipendenti che vedono a forte rischio il proprio futuro lavorativo.

Lo scenario personale collima con quello generale, dove pessimismo (33%) e preoccupazione (39,6%) per il la- voro lasciano poco spazio a sentimenti di fiducia e ottimismo (27,5%). Se la paura atterrisce le aspettative e smorza le ultime energie rimaste, non stupisce che solo una quota minoritaria di italiani guardi ai prossimi due anni con l’obiettivo di “investire” nel proprio futuro professionale; la maggioranza è preoccupata di salvaguardare prima di tutto il proprio lavoro (32,4%) e, in seconda battuta, di recuperare una dimensione di vita e di lavoro “più sostenibile” (28,8%).

Il lavoro degli italiani dopo un anno d’emergenza
Il lavoro degli italiani dopo un anno d’emergenza (fonte Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, aprile 2021)

 

Le trasformazioni del lavoro e le competenze degli italiani
Le trasformazioni del lavoro e le competenze degli italiani (fonte Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, aprile 2021)

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