Un sistema in cerca di equilibrio

Ritrovare il senso delle istituzioni, ritornare a un corretto funzionamento del nostro Stato e della nostra democrazia attraverso la vecchia e sacrosanta divisione dei poteri.

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politica

di Rossano Salini* |

Sono ormai trascorsi quasi trent’anni da quando, a inizio 1992, fu avviato quel grande meccanismo giudiziario, politico e comunicativo che andò sotto il nome di “mani pulite” e che cambiò radicalmente e in breve tempo il panorama politico italiano.

Quasi trent’anni, dicevamo. Eppure, siamo ancora fermi lì. Siamo ancora fermi a quel clima, a quella situazione di perenne precarietà della politica, che vive la propria quotidianità in attesa di essere, prima o poi, toccata direttamente o tangenzialmente da un’inchiesta giudiziaria. Siamo cioè ancora, proprio come allora, in una fase della nostra storia repubblicana in cui le vicende giudiziarie rappresentano uno degli elementi di maggiore influenza sulle vicende politiche, indebolendole e, in un modo o nell’altro, indirizzandole.

Lo squilibrio fra i poteri

Tale constatazione fa particolarmente specie oggi. Non tanto per la quantità di tempo trascorso senza che il nostro sistema si sia dato il tempo e il modo di capire l’urgenza di porre rimedio a una evidente situazione di squilibrio fra poteri (il che è il problema peggiore in uno stato democratico moderno), ma ancor più particolarmente per la condizione in cui ormai da diversi mesi versa la magistratura italiana. Il caso Palamara prima, e il caso Amara-Davigo oggi, sono di quelli che sarebbero in sé più che sufficienti a far scattare l’allarme generale. Non sono casi circoscritti; non riguardano il problema dell’atteggiamento di uno o di un altro magistrato. Sono casi che mettono in luce un problema sistemico, e come tali andrebbero affrontati, con tutta la serietà e la gravità che una tale considerazione comporta. E il problema è appunto il modo in cui il potere giudiziario influisce, e pesantemente, sul potere politico, mentre nel contempo pare macchiarsi di una gravissima mancanza di trasparenza al proprio interno.

Il mondo del giornalismo, a fronte di una situazione palesemente grave, o tace, o balbetta. Sostanzialmente legate a doppio filo con le procure, le redazioni dei giornali dimostrano a loro volta di essere parte integrante di quello stesso problema sistemico, e contribuiscono a creare uno scenario ancor più complesso di quanto già sarebbe se anche i due poli del problema fossero solo il potere politico e quello giudiziario.

Qual è la sostanza del problema? La totale assenza di una chiarezza e di una coerenza in merito a ciò che durante un processo si può fare o non si può fare, soprattutto per quanto riguarda il problema della diffusione di notizie con la loro capacità di creare opinione pubblica, dibattito e, naturalmente, influenza sulle decisioni politiche.

Per anni e anni, infatti, abbiamo sentito sventolare a ogni piè sospinto, da parte di magistrati, giornalisti, intellettuali e politici ingenuamente convinti di poter cavalcare l’onda del momento, il principio dell’esigenza di una massima trasparenza, contro ogni tentativo di mettere il bavaglio ai giornali o di impedire lo svolgimento libero e sereno delle indagini. E così tutto finiva sui giornali, e continua a finire anche oggi: intercettazioni di ogni tipo, particolari delicati di indagini in corso, immagini, filmati, audio. Di tutto e di più. Difendere pubblicamente la dignità violata del politico di turno, bellamente messo alla berlina contro ogni principio di garantismo, equivaleva a sottoporsi al pubblico ludibrio, se non proprio alla gogna. Dimenticando che il garantismo è uno dei principi base della nostra Costituzione, e non una bandiera di parte. Non esiste, come qualcuno incautamente ha detto, una via mediana tra giustizialismo e garantismo, ma un giudizio semplice e oggettivo: il primo va contro la nostra Costituzione, il secondo ne è uno dei fondamenti.

Così, negli anni, la presunzione di innocenza si è trasformata in una presunzione di colpevolezza. Dall’indagine, alla notizia sparata sui giornali, alle dimissioni era un attimo. E le vagonate di quelle medesime indagini finite con assoluzioni? Dimenticate da tutti, relegate in articoli di secondo o terzo piano. Ma è storia talmente nota che non vale nemmeno la pena di insistere.

Un sistema da ristabilire

Ora, invece, succede qualcosa di diverso: con i casi Palamara prima e Amara-Davigo poi, non c’è più da una parte la magistratura, con la corazzata di redazioni asservite, e la politica dall’altra; ora è una guerra civile tra magistrati.

E improvvisamente cosa accade? Che, in particolare con la vicenda Amara e la cosiddetta “loggia Ungheria”, si è riscoperto il valore della segretezza delle indagini, delle notizie che vanno tenute segrete perché c’è il rischio di diffondere qualcosa che possa rivelarsi un’accusa infondata, fango, ignominia e via discorrendo. E prima? Prima non era così? Che cosa ha permesso che per anni non ci accorgessimo di questo rischio e ora invece, improvvisamente, quando le indagini riguardano altri magistrati riscopriamo le regole, i principi, la correttezza formale, la serietà nella gestione delle indagini e della loro relativa comunicazione pubblica? Per anni non si è potuto parlare serenamente di questo problema. Finché soprattutto era dominante nell’agone pubblico la figura di Silvio Berlusconi, parlare di un problema legato al comportamento della magistratura significava di fatto schierarsi con una parte politica. E il problema invece era un altro: non c’entrava nulla la parte politica; c’entrava il senso delle istituzioni. C’entrava il corretto funzionamento del nostro Stato. Il funzionamento della nostra democrazia.

Ora vediamo in modo chiaro, pur nei contorni oscuri delle vicende che stanno venendo a galla, l’entità del problema. I giornali, soprattutto i grandi attori della carta stampata italiana, sono ancora tremendamente titubanti, e arrossiscono di fronte all’ipotesi di trattare queste vicende con l’adeguata rilevanza che meriterebbero. Ma i fatti a poco a poco emergono comunque. E ciò che c’è da fare non è assolutamente, quasi per rivalsa, mettere sulla graticola i magistrati coinvolti, come in passato loro hanno fatto con i politici. Non c’è nessuna vendetta da consumare. C’è un ordine, un sistema da ristabilire. Non secondo criteri nuovi, non con nuove regole da inventare. Semplicemente ritornando a rispettare pienamente ciò che la nostra Costituzione prevede, e che è stato sapientemente pensato per scopi del tutto fondamentali: avere processi equi, garanzie, rispetto dei diritti e, soprattutto, la vecchia e sacrosanta divisione dei poteri.


* Rossano Salini, laureato con lode in lettere classiche, dottore di ricerca in italianistica, è giornalista professionista. Ha pubblicato articoli e interviste su diverse testate nazionali.

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