di Maria Cecilia Chiappani | Il Biophilic Design è un metodo di progettazione ispirato al concetto di Biofilia.
Nome che deriva dal greco bios (vita) e philia (amore, cura) e descrive la naturale tendenza a sentirsi attratti da ciò che è vivo e vitale e a interagire in armonia con l’ambiente naturale (Erich Fromm, 1964). Il Biophilic Design Integra principi della Psicologia Ambientale, che studia l’interazione reciproca tra persone e ambiente, e della Psicologia Architettonica, che guarda agli effetti degli spazi costruiti sul benessere psicofisico degli individui.
Perché applicare tutto questo negli spazi di lavoro? Lo abbiamo chiesto a Lucilla Malara, architetto, e Donatella Mongera, psicologa del lavoro, che offrono una proposta innovativa e integrata di supporto alle organizzazioni. “Progettare nuovi spazi o ristrutturare senza tenere conto delle esigenze degli occupanti può minare i livelli di engagement, retention e competitività dell’azienda stessa”, spiegano.
“Ricerche scientifiche dimostrano quanto l’ambiente fisico influisca direttamente sul benessere e sulla salute dei dipendenti e, di conseguenza, sulle performance. Insomma, ragionare in modo biofilico significa andare oltre il miglioramento funzionale ed estetico. Facendo una scelta strategica, non necessariamente più onerosa, che porta vantaggi per tutti e un futuro più produttivo, attrattivo e sostenibile”. Vediamo come dispiegare i diversi aspetti di questo approccio, che valorizza ogni fase multidisciplinare del progetto e la allinea a valori aziendali e strategie HR.

Partendo dal lato progettuale, cos’è il Biophilic Design applicato ai luoghi di lavoro?
Lucilla Malara | Il Biophilic Design utilizza pattern ed elementi progettuali per ricreare le caratteristiche della natura, come complessità, coerenza, leggibilità e mistero, negli spazi costruiti. Aspetti fondamentali sono utilizzo di elementi naturali (piante, acqua, materiali naturali e multisensorialità), progettazione della luce naturale e artificiale per favorire il ritmo circadiano, soluzioni per il comfort acustico e visivo. Ancora, forme e geometrie ispirate alla natura, come motivi frattali e biomorfi, e palette cromatiche naturali, che influenzano positivamente lo stato emotivo in base alle attività da svolgere. L’integrazione di questi elementi non solo riduce stress e affaticamento cognitivo, ma stimola creatività e collaborazione, contribuendo al benessere psicofisico dei collaboratori.
Quale esperienza professionale l’ha condotta a questa specializzazione?
LM | Lavoro da 30 anni come architetto nel mio studio di Milano, Malara Associati, attivo da due generazioni. Il nostro approccio si fonda sulla progettazione su misura, mettendo al centro l’utente finale e le esigenze delle organizzazioni e dell’ambiente. Le teorie psicologiche mi hanno sempre affascinato, così dopo la pandemia ho deciso di approfondirle conseguendo un Master in Psicologia Architettonica e del Paesaggio.
Un percorso che mi ha consentito di confermare le intuizioni e di acquisire competenze specifiche, che ho integrato nel processo progettuale insieme agli strumenti di Psicologia Ambientale e Biophilic Design, nelle fasi pre e post occupancy. Sempre grazie al Master ho incontrato Donatella, che oggi collabora con lo studio: abbiamo unito le competenze, affrontando i progetti con un duplice sguardo complementare e trasversale.
Dal punto di vista psicologico, invece, come questi spazi influenzano produttività, creatività e benessere? Come è arrivata a “scegliere” questa branca?

Donatella Mongera | Possiedo circa 30 anni di esperienza nella consulenza HR: occuparmi del benessere delle persone è sempre stato il mio obiettivo professionale. In questo percorso ho raggiunto la consapevolezza che anche lo spazio fisico può essere un fattore da tenere in considerazione, poiché capace di condizionare, oltre alla salute, l’intero spazio relazionale.
Lavorare in ambienti che garantiscano condizioni ottimali dal punto di vista fisico e cognitivo, riducano gli stressori ambientali, rispondano ai bisogni individuali e organizzativi, favoriscano la concentrazione e la rigenerazione dell’attenzione, liberino energie e creatività, supportino il lavoro di squadra, è un elemento facilitante nel produrre un cambiamento.
In che modo Biophilic Design e Psicologia Ambientale diventano complementari nella progettazione degli ambienti lavorativi?
DM | L’integrazione dei principi della Psicologia Ambientale con gli strumenti del Biophilic Design guida l’intero processo. Questo approccio non solo migliora comfort e benessere degli utenti, ma aggiunge un valore scientificamente provato alla progettazione. Le soluzioni si basano su un’analisi approfondita dei bisogni delle persone e del modello organizzativo aziendale. Il risultato non è solo un ambiente funzionale e piacevole, bensì una progettazione su misura restituita al cliente in ogni fase del percorso, con soluzioni tangibili e verificabili.
Si tratta di “scoperte” post pandemia o la progressione di queste tendenze era già radicata?
DM | Queste tendenze affondano le radici in studi e ricerche consolidati. La PA, sviluppatasi negli anni 50, dimostra l’influenza reciproca tra ambiente e individuo, evidenziando come gli spazi possano condizionare le risposte fisiologiche, cognitive, emotive e comportamentali. Al suo interno, la Psicologia Architettonica dagli anni 70 si concentra sugli effetti degli ambienti costruiti sul benessere psicofisico. Anche il Biophilic Design si concentra sui benefici di un rapporto più stretto tra uomo e natura, con impatti positivi su salute mentale e recupero dallo stress.
La pandemia ha naturalmente accelerato la diffusione di queste discipline e ha reso prioritari nuovi modelli di lavoro ibrido. Il contesto in cui viviamo è oggi caratterizzato dall’acronimo Vuca (Volatilità, incertezza, complessità e ambiguità). Va da sé la necessità di occuparsi della salute mentale: siamo sottoposti a maggiori richieste e cambiamenti. Quindi pressione e stress. PA e BD aiutano a sviluppare un concetto di spazio che, da mero contenitore, diventa uno strumento di benessere e di successo.
Come tradurre questi concetti negli ambienti ibridi, dove le persone si alternano e gli uffici sono vuoti o pieni a seconda della giornata?
LM | Il modello più efficace è l’Activity-Based Working, che prevede spazi suddivisi in zone funzionali, progettate in base a modello organizzativo, esigenze dei dipartimenti e bisogni delle persone. Questo significa alternare ambienti dedicati al lavoro individuale o di gruppo con spazi per attività specifiche: aree operative flessibili, sale riunioni, zone informali, stanze rigenerative, lounge, kitchenette, aree gioco, ecc.
I dipendenti possono prenotare la postazione più adatta all’attività che devono svolgere, in un ambiente flessibile e riconfigurabile. Alla base, è fondamentale un’analisi approfondita del modello organizzativo di ciascuna realtà aziendale per riuscire a tradurre le esigenze in una progettazione spaziale su misura. Capace di adattarsi dinamicamente alle modalità di lavoro e di riflettere correttamente le scelte strategiche e valoriali dell’organizzazione.

Quali elementi servono per garantire spazi flessibili ed efficienti? Come coniugarli con la sostenibilità?
LM | In un’epoca Vuca, le aziende devono adattare continuamente i propri modelli. Alcune puntano sul ritorno in sede, altre sul fully remote, molte stanno ancora transitando verso un modello ibrido o di smart working. Per rispondere a questa evoluzione, gli spazi aziendali, che siano ridotti, ampliati o “solo” ristrutturati, devono essere progettati con criteri di flessibilità e riconfigurabilità, senza dimenticare la sostenibilità.
Tra gli elementi chiave:
- pareti divisorie modulari (vetrate o cieche) per adattare rapidamente gli ambienti;
- impianti modulari che facilitino la revisione delle postazioni;
- arredi riconfigurabili, componibili e adattabili;
- segnaletica flessibile.
A ciò si unisce la scelta di materiali circolari, privilegiando prodotti locali per ridurre l’impatto ambientale. E valutando soluzioni per risparmio energetico, isolamento termico, ventilazione e illuminazione naturale. Altrettanto importante, puntare sul recupero degli elementi esistenti per minimizzare i rifiuti e dare nuova vita a componenti obsoleti. Il BD promuove anche l’inserimento di piante, che migliora la qualità dell’aria, o di soluzioni compositive che sfruttano le condizioni climatiche naturali riducendo i consumi. Le aziende, infine, possono contribuire attraverso azioni di consumo responsabile e incentivando comportamenti virtuosi (spinta gentile).
Avete esempi pratici di aziende che hanno visto miglioramenti applicando il Biophilic Design?
DM | Sì, ci sono tanti casi di miglioramenti importanti. In generale, l’applicazione della progettazione biofilica, in combinazione con le evidenze scientifiche e gli strumenti della psicologia applicata, ha dimostrato l’aumento di performance cognitive e concentrazione, riducendo lo stress e favorendo la creatività. Le aziende guidate da questo approccio, in cui il modello organizzativo e manageriale è coerente con i modelli spaziali, credono che anche lo spazio possa essere uno strumento strategico su cui investire, al pari e a fianco di altre misure adottate.
Le Pmi spesso sono più resistenti al cambiamento. Come aiutarle a capire che la cura degli spazi di lavoro è un investimento strategico?
LM | Non ne farei tanto un tema di tipo, dimensioni o settore, piuttosto direi che alcune aziende danno più o meno importanza a questi temi. Purtroppo, nei momenti di crisi i primi costi tagliati sono quelli connessi a welfare e formazione, perché non considerati “core”. Ma è un atteggiamento miope, perché le persone sono il vero capitale di investimento per un’azienda. In realtà, si possono dire diverse cose sul “costo” del nostro approccio.
Potremmo spiegare che anche un intervento piccolo può dare benefici evidenti, o che la spesa per questa progettazione è molto simile a quella di altre in termini di empowerment o sviluppo delle risorse umane. Ma ci limiteremo a rispondere con la domanda posta da un HR a un imprenditore durante un incontro di analisi dei fabbisogni: “Siamo proprio sicuri che possiamo farne a meno o ci costi meno non farlo?”.
Questi investimenti rappresentano un vantaggio, una strategia per il successo, con benefici diretti su produttività, attrazione e retention. E benefici indiretti su assenteismo, presenteismo e turnover. Senza dimenticare benefici intangibili come gradevolezza, soddisfazione e percezione di equilibrio vita/lavoro. Per comunicarlo a Facility Management e Risorse Umane bisogna portare prove concrete provenienti da studi e best practice.
Il vostro percorso è confluito anche nella pubblicazione del libro “Spazio al benessere”. Come nasce l’idea e come è strutturato il volume?
DM | Il nuovo libro nasce dal desiderio di condividere la nostra esperienza in un testo interdisciplinare con un obiettivo specifico: migliorare il benessere sia degli individui sia delle organizzazioni. Offrendo un approccio progettuale che integri diversi punti di vista. Ci proponiamo di stimolare la curiosità del lettore, invitandolo a esplorare una nuova modalità di progettare spazi, promuovendo un cambiamento di mentalità che mette al centro le esigenze di tutti gli stakeholder coinvolti, dal management ai dipendenti.
Il volume è strutturato in sei capitoli. I primi due introducono la teoria del benessere individuale e organizzativo, le principali teorie della Psicologia Ambientale e Architettonica e del Biophilic Design. Il terzo capitolo si concentra sui nuovi modelli di lavoro. Il quarto capitolo approfondisce l’applicazione pratica del Restorative Design e del Biophilic Design: come creare ambienti che favoriscano concentrazione e benessere psicofisico. Il quinto presenta la metodologia con strumenti concreti e indicazioni pratiche a supporto di manager e progettisti. Infine, esploriamo i vantaggi tangibili in termini di benessere e di connessione con le certificazioni di sostenibilità ambientale e l’Agenda 2030.
“Spazio al benessere” è il risultato di un’esperienza concreta e di una profonda riflessione su come progettare ambienti che rispondano a necessità reali. Crediamo che un percorso partecipativo e interdisciplinare human-centered possa portare risultati straordinari.
Infine, sguardo al futuro. Quali sfide nella progettazione degli spazi di lavoro dei prossimi anni?
LM | Oggi, più che mai, è essenziale prendere decisioni progettuali consapevoli e di qualità. Ogni scelta non solo influisce su benessere e produttività delle persone, ma ha un impatto sul pianeta. In futuro dovremo rispondere a nuove sfide di sostenibilità, flessibilità e inclusione delle diverse abilità. La progettazione dovrà riconsiderare l’utilizzo di materiali a basso impatto ambientale, di soluzioni efficienti e di ambienti a bassi consumi.
Le pratiche biofiliche diventeranno una necessità proprio per rispondere al contesto sempre più stressante, competitivo e al 90% indoor. Più spazio anche alla salute mentale: serviranno aree di relax e meditazione per migliorare la relazione diretta. Le aziende dovranno anche affrontare l’integrazione della tecnologia avanzata (sensoristica, app, centraline intelligenti, ecc.) nei luoghi di lavoro. Infine, sarà necessaria una visione più ampia e responsabilizzante su business, persone, ambiente.
La speranza è che i progetti non vengano valutati esclusivamente in base a funzionalità, bellezza ed economicità. Ma soprattutto per la loro capacità di promuovere il benessere umano e la sostenibilità Esg. Il cambio di paradigma richiederà il contributo di tutti: progettisti, aziende, governi e comunità. Solo così potremo costruire luoghi di lavoro che rispondono alle esigenze del presente e sono anche una risorsa per il futuro.