Strumenti, relazioni, uomini e donne: storia di spinte incessanti, di equilibri più o meno persi e ritrovati, che nei secoli hanno caratterizzato lo sviluppo delle persone nell’ambiente naturale, sociale e, per quel che concerne il nostro focus, anche lavorativo. Ecco il pensiero, competente e giustamente “pungente”, di chi ha messo questa connessione al centro del proprio percorso personale di ricerca, insegnamento e consulenza. Insieme a Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione Aziendale presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, tocchiamo i temi chiave dell’attuale trasformazione delle risorse umane, nelle sue più profonde radici.
Dai primi anni della sua attività professionale a oggi: quali sono i cambiamenti più significativi nell’organizzazione e nella gestione delle aziende in Italia?
La risposta più ovvia è sottolineare la profonda trasformazione derivante dalla diffusione delle tecnologie. Da un lato hanno autonomizzato molte attività un tempo delegate (si pensi per esempio alla comunicazione e alle lettere che venivano dettate dai capi alle proprie segretarie) e dall’altro hanno modificato le modalità di lavoro verso logiche di progetto, anche internazionale.
Se questo ha certamente modificato il lavoro quotidiano e la struttura degli spazi, il cambiamento più rilevante è per me di natura culturale e sociale. Il peso delle relazioni gerarchiche si è attenuato e le ritualità che le accompagnavano sono sempre meno tollerate. Sebbene non con la stessa velocità, sono cambiate anche le dinamiche di genere con una liberazione progressiva della forza lavoro femminile. Ma qui, come detto, c’è ancora molto da fare.
La relazione tra persone, tecnologia e innovazione è al centro del suo pensiero. Ci spiega cosa intende?
La tecnologia è una dimensione realizzativa dell’umano che si proietta verso l’ambiente naturale e sociale nel quale vive. È una delle forme di innovazione più importante cui ricorriamo. Secondo Arnold Gehlen è una prosecuzione del nostro corpo limitato e del nostro pensiero. Nonché una ambiziosa sfida all’ambiente naturale, secondo il quale come specie non siamo strutturalmente nati come i più adatti o i più forti.
Dunque, senza la tecnologia la specie umana non avrebbe certamente raggiunto la complessità che oggi la caratterizza. Allo stesso tempo, la tecnologia in sé non ha senso se non viene collocata sullo sfondo che la rende dominante, ovvero l’apprendimento sociale. Quella competenza unica che ci consente di apprendere dalle esperienze degli altri non solo con l’osservazione, ma con la codifica che consente l’uso del linguaggio e del ragionamento simbolico e astratto. L’equilibrio tra la persona e la tecnologia è l’elemento essenziale dell’innovazione. Senza equilibrio corriamo il rischio dell’appiattimento tecnocratico (quando domina la tecnologia) o della fuga luddista (quella visione un po’ naïve dell’uomo “naturale”).
Si percepisce spesso uno scollamento tra la digitalizzazione e la sua concreta implementazione nelle aziende. Siamo pronti alla nuova era dell’AI e dei big data? Come riuscire a fare di più?
Mi ricollego alla risposta precedente. Lo scollamento che viviamo rischia di soffocare il potenziale di innovazione delle tecnologie. Promuovendo, in vasti settori della società, un pensiero anti-tecnologico e anti-scientifico. Un rischio molto serio che minaccia tutti, non solo le organizzazioni. Una tecnologia che corre troppo veloce rispetto alle persone non è innovativa: genera tensioni, paure irrazionali e inquietudine sociale, legate anche alle disarmonie tra chi controlla e chi subisce tali strumenti.
Le reazioni possono essere anche estreme e ci riconducono alle preoccupazioni circa l’intelligenza artificiale, espresse anche da chi la sta implementando, come Sam Altman. In generale, a mio avviso non siamo pronti. Le ragioni sono legate allo scollamento tra tecnologia e persona che già Max Weber identificava come uno dei dilemmi della modernità. Nella quale l’uomo non possedeva più le conoscenze della sua realtà e utilizzava strumenti tecnologici come fossero black box. Più che fornire competenze digitali o di prompting, dovremmo spiegare a tutti cosa si cela dietro la macchina, togliere il velo che genera timore ed evidenziare i limiti. Non solo spingere sulle opportunità.
Nella pratica, in molte organizzazioni servirebbe astenersi da pompose affermazioni sul futuro, che fanno presa su un pubblico disattento ma confondono un po’ le acque. Non vorrei più sentire il Ceo di una grande impresa del settore finanziario affermare con leggerezza che dobbiamo tutti imparare a programmare in python. Fa effetto, ma congela la realtà invece che farla evolvere. Forse, basta solo un po’ di buon senso in più?
Che ruolo assume, invece, il concetto di sostenibilità nelle sue implicazioni ambientali, sociali e di management?
Avendo curato con Paolo Iacci il primo manuale italiano sul rapporto tra sostenibilità e risorse umane, la mia risposta può forse risultare un po’ scontata. Le società umane sono sistemi in relazione dinamica al loro interno e con l’ambiente naturale. La loro evoluzione è imprevedibile e tipicamente segue fasi differenti, in cui alcuni segnali di preoccupazione crescono fino a diventare così manifesti da costringere a invertire la direzione.
Si pensi a cosa è accaduto in 30 anni sui temi dell’ambiente che, da oggetto da sfruttare è quasi divenuto un soggetto in conflitto con l’umanità. Sono processi ciclici che assumono caratteristiche diverse a seconda delle fasi storiche, ma al di là della nostalgia delle “Luci a San Siro” di Roberto Vecchioni, il fatto che non ci sia più la nebbia vuole dire che i nostri polmoni a Milano sono più puliti.
Le risorse umane si devono confrontare con le conseguenze delle proprie decisioni in termini di sostenibilità. Ma questo non deve diventare il pretesto per dimenticare che la prima arena della sostenibilità è la qualità del lavoro e dei suoi luoghi, non solo fisici ma anche psicologici. Ben vengano, quindi, green HR management, investimenti in welfare e benessere, attenzione alla salute mentale. Tuttavia, non si dimentichi il lavoro nella sua valenza identitaria, investendo sulla sostenibilità anche in termini di crescita e sviluppo delle persone.
Il corso di laurea magistrale in Management of Human Resources rappresenta una svolta di innovazione nel panorama italiano. Come si struttura e che strumenti offre ai futuri responsabili HR?
Questo corso di laurea magistrale in scienze economico aziendali ha rappresentato l’evoluzione del prototipo attivato nel 2013, che aggiungeva anche i labour studies. La revisione del 2020 ha accentuato la presenza di corsi dedicati ai diversi temi del mondo HR. Gli studenti, oggi, possono seguire corsi dedicati ai principali contenuti e strumenti di tutte le aree delle risorse umane, dall’organizzazione ai sistemi informativi, dal digital HR alla selezione, dal comp and ben al change management.
Il percorso, interamente in inglese e su due anni, prevede spazi dedicati per stage o scambi all’estero e un intero trimestre per lo sviluppo della tesi di laurea. La didattica è innovativa e i partecipanti possono trarre beneficio da tanti incontri con HR Director di imprese italiane e internazionali, per contribuire a creare anche una propria immagine utile per il futuro. Essendo l’unico percorso con queste caratteristiche in Italia, con più della metà degli studenti provenienti dall’estero, a volte siamo in imbarazzo rispetto alle richieste delle tante aziende che vorrebbero attivare uno stage, perché i nostri studenti sono già impegnati.
È stata una scommessa, ma possiamo dire dall’alto di una classe di circa 100 studenti ogni anno, su più di 1.200 domande di ammissione, che l’abbiamo vinta. Certo, non mancano le difficoltà legate all’integrazione degli studenti stranieri in un tessuto di imprese che non sempre consente di lavorare con una conoscenza di base dell’italiano. Ma ciò è compensato dal fatto che molti studenti si trasferiscono poi all’estero e non solo in Europa.
Il suo ruolo accademico va di pari passo con la consulenza alle aziende. Quanto è stimolante vivere in prima linea entrambi i lati della “barricata”?
Una delle fortune del mio settore di ricerca è che, negli anni, si è sviluppato un filone – un tempo chiamato “action research” e oggi più propriamente “collaborative management research” – capace di coniugare i due ruoli. Se negli anni Novanta ho vissuto questi due componenti quasi come fossero in conflitto, dal 2000 in avanti ho capito che il rigore degli strumenti e delle logiche della ricerca poteva rappresentare una soluzione di continuità rispetto alla consulenza di massa.
La quale oggi, in Italia, è caratterizzata da due fenomeni: la diffusione acritica di best practice sviluppate all’estero dai brand principali e la trasformazione della consulenza in mero body rental, non sempre di qualità. I numeri stessi di queste società spiegano come la visione originale della consulenza, come luogo in cui incontrare persone con idee originali e innovative, sia ormai tramontata. Molti percorsi di crescita sono a pura trazione commerciale, il livello di elaborazione di troppi partner di società quotate è modesto e il posizionamento di chi viene dalla ricerca è esclusivo.
Rimane un problema, soprattutto nelle università pubbliche: l’incapacità di integrare queste opportunità in un modello organizzativo molto rigido. Per fortuna la legge consente di scegliere un regime di impiego diverso, detto a tempo definito, cosa che mi ha consentito di portare valore nelle imprese, ma in realtà di portarne molto di più proprio nell’università e agli studenti. All’estero questa logica non è ostacolata, anzi viene spesso supportata e incentivata. Speriamo di poter dare un contributo anche in quest’ambito.
Mi ricollego al problema del mismatch. I dati parlano chiaro ma cosa c’è dietro il fenomeno?
La mia reazione alla teoria del mismatch è controversa. Se, da un lato, ritengo opportuno avvicinare la progettazione dei percorsi formativi universitari (ma anche dei gradi scolastici precedenti, a partire dalla scuola primaria) alle dinamiche del mondo contemporaneo, dall’altro non credo che il ruolo dell’istruzione sia quello di alimentare in modo diretto le imprese.
L’istruzione ha una funzione di cittadinanza e di creazione di equità sociale. Deve quindi contribuire a sviluppare un pensiero critico, consentire lo sviluppo delle proprie passioni, diffondere il valore del metodo scientifico e del confronto basato sui dati e rafforzare l’autostima dei ragazzi. Oggi questi obiettivi sono quasi del tutto non raggiunti e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. La società che sembra retrocedere nella sua capacità di sviluppo della specie umana. Il mismatch molte volte è il portato di un sistema di imprese che assistono passive alla distruzione degli assetti educativi. E che ritengono di poter semplicemente aspettare che il sistema lavori per loro.
L’università, va detto, è finanziata dalla fiscalità pubblica alla quale le imprese contribuiscono, ma non sempre pro quota con lo stesso livello di contribuzione delle famiglie, anche di chi non andrà mai all’università. Ritengo giunto il tempo di parlare in modo franco alle istituzioni e alle imprese e di richiamarle alle loro responsabilità, per uscire dal gioco perverso di scaricare tutto su scuola e università, nell’ottica di ripristinare un po’ di oggettività. Spesso, poi, il mismatch nasce dal fatto che, in tante imprese, le qualità dei laureati non vengono messe a frutto a causa di strutture antiche, tradizionali e standardizzate.
Considerando i suoi scambi professionali con gli ecosistemi HR di tutto il mondo, quali differenze nota rispetto alla situazione italiana?
Mi colpisce che l’ecosistema HR italiano molto spesso scambi la formazione avanzata con la convegnistica. Purtroppo, ancora pochi direttori capiscono l’urgenza di creare partnership a un livello diverso rispetto alla partecipazione a eventi di network, dove spesso si va perché invitati a parlare di sé (più che della propria azienda). Questo “turismo da convegno” è molto meno presente all’estero: le risorse sono investite in reti di qualità, che portano intorno al tavolo temi significativi e ben approfonditi. Si pensi, per esempio, all’esperienza di Cahrs a Cornell, forse il più importante centro di ricerca HR globale. Con il quale, insieme al mio gruppo dell’Università degli Studi di Milano, sto discutendo di una possibile partnership. Ma anche realtà come Executive networks o SHRM sono di tutt’altro livello.
Un altro elemento è la dominanza dei temi amministrativi e di relazioni industriali. Questo è in parte spiegato dal contesto, sebbene per esempio in Francia, che di certo non ha un assetto meno conflittuale, questi aspetti non dominino l’agenda dell’HR Director. Infine, c’è la perdita di competenze. Molte persone non possiedono una conoscenza approfondita del mestiere e vengono da esperienze del tutto diverse in società di selezione, formazione o consulenza di processo. Invece, quello dell’HR è un mestiere vero e difficile, non solo da apprendere “facendo”. Questa è la ragione del successo a volte incredibile dei nostri laureati di MHR. Anche se, a volte, una diffusa ignoranza dei recruiter spinge a considerare i laureati Bocconi o Politecnico come preferibili (e magari hanno fatto solo uno o due corsi sul tema HR…).
Stare bene sul posto di lavoro: quanto è importante questo aspetto e cosa stanno facendo la aziende?
Ho già sottolineato l’importanza del ridisegno dei processi di lavoro e dell’organizzazione, avendo come obiettivo la qualità dell’esperienza delle persone. Timidamente sta accadendo, anche se mancano competenze di progettazione organizzativa e le soluzioni esterne della consulenza sono ancora tradizionali. Le altre aree di azione hanno riguardato prima il welfare (incrementando il valore economico attraverso nuovi servizi) e poi il concetto più ampio del “wellbeing”.
Anche in quest’ultimo aspetto c’è pluralità: dall’adozione di piattaforme che aiutano le persone a stare bene fisicamente e psicologicamente a iniziative di costruzione di team e di connessione tra le persone, o al contrario di forte flessibilità e smart working. La progettazione degli spazi d’ufficio, tema centrale prima della pandemia, è stata un po’ abbandonata. Trovo sia un peccato, anche perché molte organizzazioni hanno per l’ennesima volta proceduto come i proverbiali “lemming” (perché pare non vero che si gettino in fila nell’oceano…) seguendo slogan, compiaciuti da fornitori e consulenti.
L’esperienza con Elis sulle palestre relazionali, ovvero sulla creazione di luoghi condivisi tra più aziende dove lavorare e creare comunità, è stata significativa. I risultati misurati e ripetuti ci dicono che quella forma di organizzazione del lavoro è migliorativa per le persone e per l’azienda. Eppure, al termine della sperimentazione molte realtà sono tornate indietro. Perché? Spesso, per la pigrizia della funzione HR, chiamata a fronteggiare modalità meno standard di quelle tradizionali. In altri casi, perché le ideologie sembrano contare più dei risultati scientifici, cosa che mi preoccupa sempre molto.
Nella sua idea c’è la libertà degli spazi organizzativi. In che modo “liberare le energie trasformative” può migliorare leadership e lavoro di squadra?
Se la guardiamo senza andare per il sottile, un’organizzazione è l’insieme di modi di fare le cose (e tecnologie associate), logiche di distribuzione di queste cose e persone che le faranno. Nella grande maggioranza delle giornate questo è quello che accade. Poi ci sono le decisioni, ovvero dei momenti in cui si sceglie se fare una cosa o un’altra, ma sono molte meno di quanto si pensi. L’organizzazione è soprattutto routine e ripetizione.
Per questo, introdurre l’innovazione come quella degli spazi – vedi la risposta precedente – tende a produrre scelte regressive e difensive. In questo contesto, una quantità immensa di energie umane (e anche di energie fisiche, compresa l’energia elettrica o la forza motore) vengono disperse per garantire l’esecuzione delle routine e per controllare che tutto avvenga come si deve. Non sto certo parlando della compliance, ma dell’orientamento organizzativo a sopprimere qualsiasi variante.
Ecco il senso della mia proposta. Spostare queste energie di controllo, a volte di vera e propria costrizione, verso l’espressione del sé. Ciò vuole dire certamente innovazione, ma anche creazione di luoghi di lavoro meno rituali e ingessati. Nei quali rendere giustizia all’idea che le persone contano più dell’organizzazione, il famoso motto “people first” di cui tanti si riempiono la bocca senza poi seguirlo concretamente.
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