di Elio Borgonovi e Andrea Crocioni |
Astrofisica di formazione, pioniera della cooperazione spaziale internazionale e tra le massime esperte mondiali di economia dello spazio, Simonetta Di Pippo è Professor of Practice di Space Economy alla Sda Bocconi. Dove dirige il See Lab, (Space Economy Evolution Lab) ed è visiting professor alla New York University di Abu Dhabi.
È stata Direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite pe rgli Affari dello Spazio Extra-atmosferico dal 2014 al 2022 e ha ricoperto ruoli apicali presso Esa, Asi ed European Space Policy Observatory di Bruxelles. In questa intervista ci aiuta a comprendere perché lo spazio rappresenti già oggi una leva strategica (economica, tecnologica e sociale) per il nostro presente, ma soprattutto per il nostro domani.
Professoressa Di Pippo, come possiamo definire l’economia dello spazio?
Tutti i grandi operatori e analisti internazionali si riferiscono alla definizione proposta dall’Ocse nel 2012. Il perimetro della “Space Economy” è costituito da due grandi aree. Da un lato il settore spaziale in senso stretto, cioè tutte quelle aziende che costruiscono razzi, satelliti, sonde, basi e che utilizzano infrastrutture e dati spaziali per offrire servizi. Dall’altro, l’indotto, ovvero tutte quelle realtà che, pur non nascendo nel settore spaziale, riescono ad adattarsi e a generare valore grazie all’uso di tecnologie spaziali.
Un esempio? I servizi di delivery: non esisterebbero senza la geolocalizzazione satellitare. Chiaramente non possiamo però includere tutto il loro fatturato nell’ambito della Space Economy. Al See Lab lavoriamo proprio su questo: stimare il valore reale del settore, con correttori specifici, attraverso il nostro database proprietario See Data.
Ci può dare una stima del valore della Space Economy oggi e in prospettiva futura?
A livello globale, la stima che utilizziamo è quella della Space Foundation, che è molto vicina ai dati più aggiornati di McKinsey. Nel 2024 il settore vale circa 600 miliardi di dollari. McKinsey prevede che si arriverà a 1,8 trilioni di dollari nel 2035. La crescita è rapidissima. In passato si stimava di raggiungere un trilione solo entro il 2040. Oggi lo spazio si sta sempre più configurando come un ambiente democratico, accessibile anche a chi, fino a pochi anni fa, ne restava escluso.
Questo è possibile grazie alla disponibilità di dati spaziali gratuiti e aperti, come quelli messi a disposizione dal programma europeo Copernicus, che fornisce immagini e informazioni costantemente aggiornate sulla Terra, dall’atmosfera ai mari, fino al suolo. Anche Paesi che non dispongono di propri asset spaziali, come satelliti o infrastrutture in orbita, possono attingere a queste risorse per sviluppare applicazioni, servizi e modelli di business legati all’osservazione della Terra, alla gestione delle risorse naturali, alla prevenzione dei disastri ambientali o al monitoraggio climatico.
In questo senso, lo spazio non è più esclusivo appannaggio di grandi potenze o agenzie nazionali, ma diventa un’infrastruttura globale condivisa, su cui è possibile costruire valore, anche a livello nazionale e locale. La crescente apertura dei dati e delle tecnologie rende quindi possibile un uso più inclusivo e strategico dello spazio, alimentando un ecosistema dove innovazione, sostenibilità e cooperazione possono coesistere.
È stata la prima donna direttore dei Voli Umani dell’Esa. Come si è avvicinata a questo mondo? E oggi lo spazio è ancora un settore maschile?
Ho scelto Fisica perché ho sempre avuto una grande passione per la scienza, poi ho proseguito con Astrofisica e Fisica Spaziale. Entrando all’Agenzia Spaziale Italiana, ho scoperto il valore della cooperazione internazionale. Sono stata la prima donna Direttore all’Esa. Da lì è iniziato un percorso tra Europa e Onu che mi ha portato fino al mio attuale impegno in Sda Bocconi. Tornando alla domanda, sì, questo è ancora un settore molto maschile. Negli ultimi anni, la situazione sta persino peggiorando. Alla nostra ultima conferenza annuale del See Lab ero l’unica donna tra gli speaker. Se selezioni i relatori in base ai ruoli di responsabilità, il risultato è questo. Ed è un segnale preoccupante.
Qual è il problema secondo lei?
È un insieme di fattori. Nelle fasi iniziali della carriera pesa molto la famiglia: è il primo supporto, il punto di riferimento che ti dà la stabilità e il coraggio per affrontare strade complesse. I mestieri che ho fatto io non sono facili, richiedono responsabilità, esposizione, capacità di prendere decisioni in contesti delicati. Ma sono estremamente stimolanti: ti permettono di incidere, di lasciare un segno, di contribuire alla storia in modo cooperativo e costruttivo, sempre insieme ad altri. È questo che mi ha motivato per tutti questi anni. E anche per questo ho accettato il ruolo in Bocconi. Sentivo il bisogno di restituire qualcosa. Di condividere con i giovani quello che ho imparato, nel bene e nel male, e provare a dare un contributo alla loro formazione e al loro futuro.
Le scuole di management stanno cogliendo il valore della Space Economy?
Poche. Sda Bocconi lo sta facendo, anche grazie al lavoro del See Lab, voluto dai vertici dell’università e della scuola di allora, sostenuto con decisione e lungimiranza fino a oggi e inserito nella visione strategica del futuro. La possibilità di contribuire a questo percorso mi ha convinta ad accettare la proposta che mi dà grande motivazione. Non solo personale, ma anche per il gruppo di giovani ricercatrici e ricercatori che operano nel laboratorio.
Ma nel panorama europeo gli esempi virtuosi sono ancora rari. In generale, manca un vero approccio olistico: troppo spesso lo spazio viene studiato in modo frammentato, settoriale. Come se fosse materia solo per ingegneri, o solo per economisti, o solo per giuristi. Invece lo spazio è un tema complesso, trasversale, che richiede competenze diverse e complementari. E va affrontato così: mettendo insieme discipline, punti di vista e metodi. Solo in questo modo possiamo comprenderlo davvero e coglierne tutte le potenzialità.
Che opportunità offre oggi la Space Economy per i giovani e le nuove imprese?
È uno dei lavori del futuro, senza dubbio. Il World Economic Forum inserisce lo spazio tra le tecnologie di frontiera, accanto a intelligenza artificiale, robotica, biotecnologie e tecnologie quantistiche. Ma qui si apre un discorso più ampio. Perché fare il medico, l’architetto, l’agronomo nello spazio è radicalmente diverso che farlo sulla Terra. Cambiano completamente le condizioni ambientali, le priorità, i vincoli. Di conseguenza cambia anche lo sviluppo delle competenze. Bisogna formare professionisti capaci di affrontare sfide nuove, spesso in contesti estremi.
Penso ad esempio agli architetti: progettare per ambienti lunari o marziani significa ripensare da zero materiali, protezione dalle radiazioni, gestione dell’energia, dell’acqua, dell’aria. Ma questa trasformazione non riguarda solo lo spazio. C’è anche un ritorno concreto sulla Terra: molte soluzioni sviluppate per l’ambiente spaziale, come le serre verticali, gli habitat autonomi, i sistemi di riciclo avanzato, possono essere utili in problemi molto terrestri, come i cambiamenti climatici o la sovrappopolazione urbana. Lo spazio, insomma, è un laboratorio che ci aiuta a ripensare anche il nostro presente.
Quindi lo spazio è anche una leva per la sostenibilità?
Assolutamente sì. Se analizziamo i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu, scopriamo che oltre la metà può essere raggiunta – o almeno accelerata – grazie all’utilizzo di tecnologie spaziali. I benefici vanno dalla gestione delle emergenze naturali alla pianificazione urbana. Lo spazio permea ogni aspetto della nostra società. Siamo già una “società spaziale”, anche se non ce ne rendiamo conto.
E l’Italia, che ruolo può giocare in questa partita?
Un ruolo importante, senza dubbio. È stata appena approvata la prima legge nazionale sullo spazio, che istituisce anche un fondo dedicato all’economia spaziale: si tratta di un passo decisivo. Finalmente il nostro Paese riconosce formalmente l’importanza strategica dello spazio, non solo in chiave scientifica, ma anche industriale, economica e geopolitica.
Non abbiamo la potenza di fuoco di Stati Uniti o Cina, è vero, ma possiamo contare su una filiera solida, su competenze riconosciute a livello internazionale. E su un grande potenziale, se continuiamo a investire e a fare sistema, anche a livello europeo. Serve però una maggiore consapevolezza dei decisori pubblici. Lo spazio non è un lusso, è una necessità strategica. E non dobbiamo dimenticare che l’Italia è stata il terzo Paese al mondo, dopo l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, a mettere in orbita un satellite.
Un traguardo che dimostra quanto il nostro Paese abbia avuto – e possa ancora avere – un ruolo da protagonista nello sviluppo delle tecnologie spaziali. Patrimonio che non solo non deve essere disperso, ma che deve essere consolidato e sviluppato con una collaborazione virtuosa dell’accademia e di soggetti pubblici e privati.
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* L’intervista è stata pubblicata nel numero di giugno-luglio della rivista formaFuturi.



Chi è Simonetta Di Pippo 











