6 aziende su 10 offrono almeno un servizio di corporate wellbeing e, nel prossimo biennio, molte altre imprese italiane prenderanno la via del benessere.
Un benessere strutturalmente integrato alla cultura e ai valori aziendali, incentrato sulle esigenze organizzative, psicologiche e personali dei dipendenti, pur con differenze settoriali, geografiche e dimensionali. I dati relativi al 2024 che emergono della ricerca condotta da Cerved per Jointly, presentata in anteprima su queste pagine, confermano la crescente attenzione del mondo imprenditoriale verso il corporate wellbeing. Per vivere tutto il suo potenziale, tuttavia, serve un cambio di mentalità nella pianificazione degli investimenti e nella gestione dei progetti.
Corporate wellbeing: la trasformazione del welfare

Con il corporate wellbeing, dunque, il welfare aziendale può fare un “salto di qualità”, da puro beneficio fiscale a strategia di benessere organizzativo e personale. Secondo un’altra analisi presentata lo scorso anno da The European House – Ambrosetti e Jointly, l’approccio può aumentare l’engagement dei collaboratori del 30%. E con esso produttività e competitività. I vantaggi ottenuti dai dipendenti grazie a un piano integrato possono superare di oltre quattro volte il valore economico dell’investimento sostenuto dall’impresa.
“A partire dalla legge di stabilità del 2016, gli interventi normativi a favore del welfare aziendale si sono sempre rivolti alla sua dimensione economica di sostegno al reddito dei dipendenti”, spiega Anna Zattoni, presidente e co-fondatrice di Jointly. “Per distinguere le finalità di questi strumenti, oltre ai vantaggi finanziari e fiscali, abbiamo iniziato a parlare di wellbeing”. Dapprima, un benessere molto ritagliato sulla dimensione individuale, puntando per esempio su salute mentale e gestione della famiglia. Un percorso che, tuttavia, non ha portato l’auspicato aumento della motivazione e del coinvolgimento delle persone.
“Quando abbiamo iniziato a considerare l’insieme del benessere organizzativo come obiettivo, il benessere dell’individuo inserito nel contesto professionale e la struttura nel suo complesso, qualcosa è cambiato. Corporate wellbeing significa supportare in modo integrato l’individuo nella sua sfera personale e in quella lavorativa”, aggiunge.
In concreto, ai tradizionali strumenti economici del welfare si associano, secondo una strategia adeguata, servizi legati al benessere fisico, mentale e famigliare. Nonché opportunità di formazione e sviluppo professionale e personale. “Ci si può arrivare solo allenando la capacità di ascolto delle figure manageriali”, precisa Zattoni, “principali responsabili della diffusione (o meno) di determinati messaggi nell’organizzazione”.
Capacità e cultura organizzativa
Dalla teoria alla pratica, gli ultimi dati Cerved ci dicono che il 63% delle aziende italiane con oltre 250 dipendenti ha attivato almeno un servizio di benessere. Come leggere questa percentuale? “La definirei buona”, commenta Anna Zattoni. “Mostra la sua crescente rilevanza all’interno delle strategie HR, probabilmente anche spinta dagli impegni ESG, che toccano soprattutto le aziende quotate. Resta però un 37% di imprese grandi – 250 addetti per le peculiarità del tessuto italiano sono moltissimi – che non ha attivato questo percorso. Probabilmente perché ancora non comprende il ruolo del corporate wellbeing nelle diverse sfide, anche esterne al mercato del lavoro, in un momento complicato per l’economia e la società italiana. E dunque le sue potenzialità per attrarre talenti e ridurre il turnover”.
Le analisi di Jointly, B Corp italiana specializzata proprio in soluzioni corporate wellbeing, vanno proprio nella direzione di sensibilizzare anche i meno “aggiornati” sui benefici tangibili di tali investimenti. Vale, soprattutto, per le Pmi. Dove subentrano variabili legate alla capacità organizzativa e al reperimento delle corrette informazioni per pianificare interventi strutturati ed efficaci. La situazione si sta evolvendo, in meglio, anche grazie agli stimoli dei consulenti esterni e della rappresentanza sindacale.
Progettare il benessere psicologico
Un’ampia fetta di questo rinnovato orientamento riguarda il benessere psicologico. Qui, le Pmi come le grandi aziende rischiano di cadere nel cosiddetto “corporate wellbeing mismatch”. Sull’onda degli obiettivi di employer branding, per essere rilevanti sul mercato di riferimento, a volte si implementano strumenti senza che vi siano coerenza con i valori aziendali e condivisione d’intenti con manager e dipendenti.
“Così il sistema non funziona”, spiega Anna Zattoni. “Se i dirigenti gestiscono le persone senza aiutarle, senza creare un contesto di lavoro positivo e inclusivo, difficilmente le persone guarderanno all’azienda come al soggetto in grado di offrire risposte ai loro problemi. Anzi, cercheranno soluzioni altrove perché non si fidano. La relazione di fiducia passa attraverso manager, colleghi e vertici, che determinano il benessere organizzativo. Una volta stabilito questo valore, starà al singolo avvalersi o meno degli strumenti messi a disposizione per la salute fisica o mentale”.
Attenzione, offrire servizi non significa stipulare una convenzione con una piattaforma di psicologia online. Per occuparsi della salute mentale di una persona all’interno dell’organizzazione serve integrare strumenti coerenti e misurabili. “Torno al tema delle competenze, in questo caso delle risorse umane. Da un lato serve capacità di ascolto, per comprendere in modo profondo come si sentono le persone, dall’altro bisogna avere il coraggio di dare risposte alle esigenze che emergono. Va benissimo sottoporre questionari e creare focus group, ma se questi aspetti non vengono seguiti da interventi, o almeno da risposte mirate, si rischia l’effetto opposto”, continua.
Errori da evitare per fare corporate wellbeing
In tema di investimento da parte delle aziende, Jointly fa propria l’idea che “non serve spendere di più ma meglio”. Abbiamo chiesto ad Anna Zattoni quali sono gli errori più comuni di chi si avvicina al corporate wellbeing e come evitarli. Il primo, che sicuramente ha guidato le scelte negli ultimi anni, si lega alla necessità di cogliere le opportunità normative e fiscali, correndo nella direzione amministrativa ma senza aver costruito prima un substrato progettuale coerente.
“In questo caso si investe in qualcosa di utile, ma al tempo stesso effimero e non strutturale, che termina una volta speso l’importo erogato”, sottolinea. “Un secondo errore può essere quello di lasciarsi trascinare delle mode, implementando servizi senza aver ascoltato le persone a cui si rivolgono. Infine, il non riuscire a interconnettere tutti gli aspetti, i reparti e le figure coinvolti nel benessere organizzativo, lavorando solamente su silos verticali all’interno di ogni funzione”.
Fondamentale, dunque, ascoltare, pianificare, comunicare e integrare tutti gli strumenti per arrivare a un unico obiettivo: il benessere. Senza tralasciare l’aspetto della misurazione dei risultati. Quali sono gli indicatori da migliorare? Come monitorarli? “Le aziende troveranno risposte a queste domande solo se avranno introdotto una strategia, un approccio strutturato di collegamento tra governance che chiama in causa tutte le persone, interne ed esterne, che si occupano a vario titolo di questi temi”, aggiunge Zattoni.
Esperienze dirette
Guardando all’esperienza italiana di Jointly, il punto di partenza per accompagnare la transizione è sempre la coprogettazione. “Possiamo avere davanti l’azienda che non ha mai fatto corporate wellbeing e vuole attivarsi. Oppure quella che ha già tentato ma non sta ottenendo risultati. In quest’ultimo caso abbiamo già a disposizione dei dati da analizzare e riorientare, altrimenti si parte dall’ascolto, dagli obiettivi da concretizzare e da come misurarli. Comunque, non ci muoviamo mai senza una strategia ben definita e condivisa, frutto del coinvolgimento di gruppi multidisciplinari”, spiega l’imprenditrice.
Una volta definito il progetto custom, si parte con i servizi selezionati, supportato da un adeguato piano di comunicazione. “Se dobbiamo raccontare ai genitori i vantaggi del nuovo campus estivo per i loro figli non possiamo certamente utilizzare lo stesso linguaggio di quando presentiamo ai caregiver le opzioni legate all’assistenza a persone malate o anziane”, aggiunge. “Tutto sta nel mettere a terra il corporate wellbeing con una comunicazione adeguata e inserendolo nel sistema di valori dell’azienda”.
Nella rendicontazione, poi, non basterà analizzare i dati di utilizzo della piattaforma di welfare. È fondamentale, sebbene complesso, andare a fondo sugli obiettivi e sugli indicatori da considerare per decretare il successo dei progetti. Infine, Anna Zattoni ci offre due spunti pratici, frutto dell’esperienza sul campo dello staff di Jointly. La prima best practice è quella della creazione di una rete umana di ambassador, adeguatamente formati, che ha agevolato e orientato l’utilizzo da parte dei colleghi dei servizi implementati. Raccogliendo informazioni preziose per l’organizzazione, in una struttura complessa e articolata su più stabilimenti.
Altro esempio interessante riguarda l’employer branding. “Basta guardare gli annunci su LinkedIn per renderci conto che lo storytelling su welfare e corporate wellbeing è praticamente nullo, ma sappiamo che la Gen Z non guarda più solo alla retribuzione nella ricerca di lavoro”, spiega. “Abbiamo aiutato un’azienda a creare un sito web esterno, dove i candidati possono consultare tutti i progetti legati al benessere lavorativo e personale. Perché, in conclusione, i servizi da soli non bastano se non vengono comunicati secondo gli obiettivi e i target di riferimento”.















