di Cesare Damiano |
Sono passati ottantanove anni da quando, nel 1936, John Maynard Keynes pubblicò la sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”.
In quell’opera John Maynard Keynes ribaltò la visione degli economisti neoclassici, stabilendo che è la domanda a creare l’offerta e non il contrario, come veniva dato per scontato fino a quel momento. Senza entrare nel dettaglio, si può ricavare dall’elaborazione di Keynes che la domanda di lavoro viene determinata dal mercato dei beni e non da quello del lavoro. Ossia, gli imprenditori investono, producono e, per far ciò, assumono lavoratori in proporzione alla domanda di beni che si attendono. Dunque, la propensione delle famiglie ai consumi ha un peso rilevante in questo rapporto circolare.
La dinamica delle retribuzioni
Senza andare oltre, va evidenziato quanto l’andamento delle retribuzioni, così come si è determinato in Italia, sia dannoso per la dinamica interna dell’economia. Esaminiamo ora i dati di Ocse, Istat e Cnel. I dati dell’Ocse mostrano come, nel 2024, il salario lordo annuale medio sia stato di 31.700 euro, ossia, 2.438 euro lordi mensili. Corrispondenti a un netto di 1.780 euro.
Se esaminiamo, invece, la retribuzione contrattuale media lorda certificata dall’Istat, sempre per il 2024, esclusi i dirigenti, è di soli 28.711 euro. Pari a circa 2.200 euro lordi mensili. Il netto arriva a 1.540 euro al mese. Non per caso, nel 2024 i consumi in Italia hanno mostrato una crescita moderata. Moderata e più debole rispetto al 2023, dove un certo recupero del potere d’acquisto è stato favorito. La crescita della spesa delle famiglie è stata contenuta: una variazione media annua stimata tra +0,2% e +0,6% a prezzi costanti.
Questo andamento riflette una certa cautela nelle decisioni di spesa. Dovuta anche alla volontà delle famiglie di ricostituire il risparmio eroso negli anni precedenti e a un clima di incertezza geopolitica ed economica. A loro volta, i dati elaborati nel XXVI Rapporto Cnel sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, approvato il 24 aprile, spiega un comunicato del Consiglio, “mostrano alcune linee di tendenza relativamente al 2024. Innanzitutto, si conferma la fase di recupero delle retribuzioni contrattuali, all’interno di una tendenza di lungo periodo che vede i salari italiani rimasti sostanzialmente stagnanti per tre decenni. Crescita dell’1% a fronte del 33% medio dell’area Ocse”.
Facciamo, per meglio comprendere la loro dinamica, un passo indietro di 15 anni. Nel 2012 – ancora secondo l’Ocse – a parità di potere d’acquisto, il lavoratore a tempo pieno guadagnava 33.536 euro lordi l’anno. Rispetto ai 31.700 del 2024. Nei fatti, oggi, il salario reale lordo annuo vale circa 1.800 euro in meno rispetto a 15 anni fa. La questione retributiva italiana è, perciò, del tutto evidente.
Per allargare lo spettro del ragionamento, esaminiamo il Rapporto Istat del maggio 2024. Si prende in esame la dinamica delle retribuzioni, sia contrattuali sia di fatto, nel triennio 2021-2023. Mettendo in evidenza come l’inflazione si sia attestata al 17,3% e le retribuzioni siano cresciute del 4,7%. Con un crollo del potere d’acquisto dei salari italiani – in quell’arco di tre anni – pari al 12,6%. Una perdita così pesante non ha precedenti nella storia dell’ultimo mezzo secolo. Questi dati, insieme al quadro generale delle dinamiche delle retribuzioni in rapporto all’inflazione, alla produttività e al rinnovo dei contratti, fanno parte del Rapporto della Fondazione Di Vittorio.
Il ruolo della contrattazione
Chi ha pagato e sta pagando il costo reale delle crisi multiple degli ultimi tre anni è il mondo del lavoro, insieme ai pensionati. Le basse retribuzioni, poi, sono in particolare appannaggio dei giovani e delle donne. Un importante ruolo di contrasto a questo scenario è affidato alla contrattazione, che rappresenta un argine. In effetti, nel corso degli ultimi tre anni, la situazione è un po’ migliorata per effetto dei rinnovi contrattuali.
Le stime Istat di dicembre 2024, grazie alla firma di importanti Contratti Nazionali e ai conguagli precedentemente previsti, indicano una crescita dei salari contrattuali del 3,1%. I Contratti Nazionali continuano a rappresentare il punto più avanzato nel nostro sistema di relazioni industriali. Nel quale l’efficacia dell’azione sindacale e i suoi risultati si misurano concretamente anche nella quantità degli aumenti salariali in rapporto all’inflazione reale.
Certo, a parità di modello contrattuale, almeno nel privato, i salari dell’industria tengono meglio il rapporto con le dinamiche inflattive. Così non è per commercio e servizi, settori nei quali cinque anni di ritardo nei tempi di rinnovo, come è capitato, pesano tantissimo. Proprio in questi settori, compresi ristorazione e turismo, si annida una parte significativa del lavoro povero. Non è un caso che nel turismo e nella ristorazione la retribuzione media oraria di fatto sia il 30% in meno rispetto a quella di altri settori.
Così è per i 3,5 milioni di dipendenti pubblici per i quali, dal blocco contrattuale del 2011, deciso dal Governo Monti, alla politica del Governo Meloni che, col 18% di inflazione, prevede aumenti per il rinnovo dei contratti del 5,8%, si concretizza una perdita salariale di circa 12 punti percentuali. Questi numeri ci aiutano a capire come non basti rinnovare i contratti, ma come questi vadano conclusi entro le loro scadenze.
I tempi dei rinnovi sono fondamentali per tutelare il salario reale. Da questo punto di vista sarebbe necessario che il Governo adottasse una misura di detassazione degli aumenti salariali quando questi rinnovi contrattuali avvengono alla loro scadenza naturale, come da tempo richiesto dai sindacati.
Il recupero dell’inflazione
Altrettanto importante, ai fini della tutela del salario, è il recupero dell’inflazione reale e non più di quella depurata del costo dall’energia. In verità, a questo punto sarebbe anche necessario aumentare i salari oltre l’inflazione, redistribuendo una quota di produttività nei Contratti Nazionali. Dunque, tale è la situazione. Che si è avvitata su se stessa in un Paese che non si applica da molti anni a sviluppare piani di politica industriale.
E che vede proprio un collasso dell’industria, mentre l’economia e l’occupazione si spostano verso un terziario nel quale prevalgono il lavoro di bassa qualità e retribuzioni inadeguate. Riprendere a pensare ed elaborare in termini sistemici, a partire da quel rapporto tra mercato, produzione, occupazione e retribuzioni illuminato da Keynes ottantanove anni fa, appare oggi una necessità urgentissima.
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