di Luigi Beccaria | Con l’approvazione da parte del Senato, lo scorso 11 dicembre, ha completato il suo iter parlamentare il cosiddetto Collegato Lavoro.
Benché si tratti di un testo legislativo volto prevalentemente a colmare alcune aporie o lacune ordinamentali in materia giuslavoristica, esso introduce alcuni istituti caratterizzati da elementi di novità. Configurandosi pertanto come prima reale tappa “riformatrice” della disciplina del lavoro da parte del Governo in carica ormai da più di due anni.
Dal Jobs Act al Collegato Lavoro
Come noto, infatti, grandi speranze avevano accolto la nomina a ministro dell’ex presidente dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro Marina Calderone, per via della sua esperienza e soprattutto della sua conoscenza “applicata” della materia. Molto differente dai profili puramente politici, e spesso estranei della materia, che più volte l’avevano preceduta.
Arrivati quasi a metà della legislatura, tuttavia, si è riscontrata, dal mero punto di vista della produzione legislativa e riformista, una certa propensione alla stabilità (eufemismo). Tant’è che, in questo arco di tempo, le novità più incisive, in un settore di solito improntato a una produzione normativa “elefantiaca”, sono state portate dal formante giurisprudenziale. Il quale ha, solo per citare alcune pronunce, già menzionate su queste pagine, nuovamente “picconato” il sistema delle tutele crescenti e rivoluzionato l’istituto del licenziamento per superamento del periodo di comporto per i disabili. Ma anche rivisto alcune posizioni su validità delle transazioni stipulate in sede protetta e rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Allargando così alcuni diritti dei lavoratori subordinati.
Tenendo conto che l’ultimo tentativo, più o meno compiuto, di riforma globale dell’ordinamento del lavoro risale ormai a quasi dieci anni fa – parliamo della serie di Decreti Legislativi nota come “Jobs Act”, ancor oggi tema divisivo se ve n’è uno, anche all’interno della forza di maggioranza che illo tempore lo promulgò -, e auspicando che il provvedimento costituisca quello che gli appassionati ittici definirebbero un “pesce pilota”, e che non rimanga dunque fine a se stesso, cerchiamo di riassumere le principali novità sostanziali ivi introdotte.
Una nuova figura contrattuale
Una certa eco, almeno in alcuni ambiti specialistici, ha suscitato l’innovativa introduzione di una figura contrattuale che combina, per il momento solo nelle imprese con volume occupazionale di almeno 250 dipendenti, un rapporto di lavoro subordinato part time con l’iscrizione a un albo ordinistico riservato. Con possibilità di accedere ai benefici previsti dal regime “forfettario”.
Pur dovendo esprimere una riserva su alcune questioni applicative, soprattutto sui riverberi previdenziali e pensionistici, si tratta di una novità interessante. Che può riflettere in modo più agile e più veritiero alcuni rapporti “ibridi” effettivamente ricorrenti nella realtà e che finora erano rimasti di incerta applicazione. E quindi potenzialmente forieri di sanguinose controversie, come troppo spesso avviene a queste latitudini.
Le assenze ingiustificate
Notevole impatto, soprattutto mediatico (spesso anche a causa di titoli assolutamente fuorvianti da parte di alcune testate generaliste sulla “reintroduzione delle dimissioni in bianco”, assolutamente non ricorrente), ha avuto poi la previsione secondo cui viene qualificato come recesso del lavoratore (dunque come dimissioni) il comportamento del lavoratore che resti assente ingiustificato per il numero di giorni ricondotto alla sanzione espulsiva (dunque il licenziamento) dal Ccnl applicato dal datore di lavoro. Ovvero, se non previsto, per 15 giorni.
La norma, a parere di chi scrive, risponde a una necessità di giustizia sociale assolutamente sacrosanta. Atteso che sempre più spesso ci si imbatte in episodi di lavoratori che, di punto in bianco, smettono di presentarsi confidando nella scarsa volontà dei datori di lavoro di fare una “guerra di logoramento”. La quale lascerebbe in un’incertezza sine die l’organizzazione aziendale. E, conseguentemente, facendosi licenziare al fine di ottenere la Naspi. Questo fenomeno crea una vera e propria ingiustizia sociale, della quale abbiamo già discusso ragionando sulla necessità di modificare la nozione stessa di “disoccupazione involontaria”.
Non si possono però non evidenziare due aspetti critici. Il primo costituito dalla parzialità dell’intervento, che non va al cuore del problema. Certo, i lavoratori che si faranno licenziare nel modo per loro più semplice, cioè smettendo di andare a lavorare, non saranno (astrattamente) più a carico dello stato per gli anni a venire. Ma allora è forse giusto che continuino a esserlo quelli che commettono reati sul luogo di lavoro, magari a danno di colleghi o superiori?
A ciò si aggiunge la necessità di interlocuzione con l’Ispettorato del Lavoro, i cui orientamenti saranno tutti da scoprire. Francamente, pur apprezzando le finalità con cui è fatta la riforma, non mi stupirebbe che, “ne cives ad arma veniant”, come diceva il vecchio giurista Friedrich Carl von Savigny, tale previsione resti lettera morta e che in fatto le aziende continuino a irrogare licenziamenti disciplinari. Magari vincolandoli a qualche accordo sindacale, accollandosi il costo del ticket di licenziamento pur di non avere problemi. Ad ogni modo, la direzione intrapresa appare corretta, anche se è auspicabile qualche intervento correttivo e integrativo.
Altre novità del Collegato Lavoro
Altre novità contenute nel Collegato Lavoro, come il periodo di prova nel tempo determinato, colmano lacune legislative (gravi) pregresse. Ed è corretto (anzi, tardivo) che siano state effettuate. Parimenti, le modifiche in tema di somministrazione saranno certamente gradite a chi auspica una maggior liberalizzazione del settore.
In definitiva, il Collegato Lavoro sembra improntato a buone idee. Rimane però la speranza che costituisca la prima pietra di un ammodernamento di tutta la disciplina, e non un provvedimento destinato a rimanere isolato nel mare di una serie di norme in taluni casi vecchie decenni.
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