di Romano Benini |
Ogni economia nazionale agisce nello scenario globale e la nostra economia, particolarmente legata agli scambi con l’estero, agisce e reagisce a queste dinamiche anche più di altre.
Siamo in una fase nuova, in cui la stessa globalizzazione si sta riconfigurando e modificando. Viviamo ancora un periodo di transizione in cui il nostro Paese è chiamato in parte a definire e in parte a completare riforme importanti. La transizione riguarda anche le forme e i modi della produzione e del lavoro. Dobbiamo per questo considerare come l’Italia abbia affrontato la crisi finanziaria del 2008, in quanto questo approccio ha influenzato la nostra capacità di competere come sistema Paese e ne vediamo ancora oggi le conseguenze.
Negli scorsi decenni abbiamo infatti affrontato il cambiamento soprattutto tenendo bassi i salari e non siamo riusciti a fare ciò che altre nazioni sono riuscite invece a fare. Ossia contenere i costi, rendere più efficienti gli investimenti e la spesa pubblica e diminuire il carico fiscale per imprese e lavoratori. Il risultato è che nel 2024 un’ora di lavoro in media in Italia costa 29 euro (21 di salario e 9 di oneri del datore di lavoro) contro i 39 della Francia (27 di salario e 12 di oneri) e i 40 della Germania (30 di salario e 10 di oneri). Più basso del nostro il costo del lavoro è solo in Spagna (24 euro, 18 di salario e 6 di oneri), in Portogallo (18 euro, 14 di salario e 4 di oneri) e in altre nazioni con minore valore aggiunto.
Questa scelta di contenimento salariale ha inibito la domanda interna e i consumi degli italiani. E ha spinto le nostre imprese nella competizione globale, anche quelle che non erano adeguatamente attrezzate a farlo. Appare evidente come la necessità di qualificare domanda e offerta, nonché di rendere più attraente il lavoro e più competitivo il sistema italiano, implichino un ripensamento di questa strategia.
Rendendo efficienti gli investimenti e la spesa pubblica e al tempo stesso cercando di recuperare risorse in prospettiva per diminuire il carico fiscale che grava sull’economia e sul lavoro. Dobbiamo rimettere al centro delle scelte la nostra capacità di produrre, dalla quale deriva la nostra capacità di competere.
Riposizionamento strategico
In questo contesto va considerato il ruolo del nostro sistema manifatturiero, drasticamente cambiato dall’impatto della globalizzazione negli ultimi vent’anni. Questa ha trasformato l’industria italiana in un sistema in cui nella catena globale del valore tendiamo a presidiare nicchie altamente specializzate. E ad operare come fornitori di qualità di settori che in cima alla filiera hanno spesso imprese straniere o compagnie finanziarie che hanno acquisito nel tempo marchi italiani, facendo peraltro notevoli affari.
Questo presidio è centrale per il nostro sistema economico, ma va oggi sostenuto con investimenti nella formazione e nel passaggio generazionale del capitale umano. Cercando di promuovere la spinta delle nostre imprese per conquistare spazio e magari anche maggiore “italianità” nella catena del valore, anche aspirando al vertice, in cui siamo già collocati per diversi settori.
Tra le prime venti province europee per specializzazioni produttive in termini di valore aggiunto otto sono italiane e le altre dodici sono tedesche. Sono elementi di conoscenza utili: per rafforzare il nostro sistema è fondamentale saper riconoscere i contesti in cui siamo competitivi e dinamici e rispondere alla domanda di competenze che esprimono.
Tengono economia e occupazione
Ci sono anche altre buone notizie, non casuali, che costituiscono la conseguenza di un sistema che sta tenendo bene. Dopo la fine della pandemia abbiamo avviato una buona crescita del Pil e una ripresa dell’occupazione, che tuttavia non riusciamo a esprimere al meglio per via del disallineamento tra domanda e offerta. La crescita del Pil pro-capite è stata in questi anni importante, la prima in Europa. Così come il contenimento del debito pubblico, che è addirittura diminuito se lo consideriamo al netto della spesa per interessi.
Questa situazione favorisce il contenimento dell’inflazione, dello spread, dei costi dell’energia e il sostegno all’export, che ci riporta in questi mesi come quinto paese al mondo per attivo della bilancia commerciale, secondi in Europa dietro la Germania. A questo corrisponde un buon risultato in termini occupazionali. In questi mesi abbiamo raggiunto il dato più alto per numero di occupati nella nostra storia recente. A febbraio 2024 il tasso di occupazione è arrivato al 61,9%. Abbiamo raggiunto i 23 milioni e 800mila occupati, dei quali circa 16 milioni a tempo indeterminato.
Il consolidamento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato lo scorso anno è stato significativo. L’Istat registra infatti un aumento dei rapporti a tempo indeterminato del 4%, al quale corrisponde un calo del lavoro a tempo determinato del 6,6%. Nell’ultimo anno abbiamo avuto un aumento del tasso di occupazione dell’1,5% e del numero di occupati di 351mila unità. Un dato quantitativo che corrisponde a un aspetto qualitativo importante, ossia al calo del tempo determinato di 200mila unità, delle partite iva di 53 mila unità e del corrispondente aumento di 603mila unità del lavoro a tempo indeterminato. Si tratta quindi di un interessante processo di stabilizzazione.
Questo segnale conferma il miglioramento della fiducia tra le imprese, ma anche quella necessità di trattenere i lavoratori che mostra un segnale di ripresa importante. In questo contesto ci sono tuttavia fattori di rischio su cui dobbiamo intervenire e che rendono necessarie delle politiche mirate. Questi fattori riguardano in primo luogo l’andamento della distribuzione e diffusione delle opportunità di lavoro e del valore aggiunto.
I fattori di rischio
Il primo riguarda il sistema manifatturiero che rischia di organizzarsi dividendosi tra territori e filiere competitive, presenti soprattutto in alcune aree del Nord, e settori e territori più deboli, collocati all’estremità della catena del valore, meno produttivi e con bassi salari, presenti soprattutto al Centro Sud.
Secondo fattore di rischio, il fatto che la faglia di confine tra aree con capacità competitiva forte e altre meno competitive si sia in questi anni alzata. Dividendo ormai il Centro Italia e rischiando di restringere i territori davvero performanti e competitivi. Questo fenomeno è evidente nel manifatturiero, ma influenza anche altri settori come i servizi alle imprese e la grande distribuzione. Il terzo rischio è collegato ai primi due: quello di avere un paese economicamente sbilanciato, che determina conseguenze anche sul fronte della diffusione delle opportunità di impiego.
Non è un bel destino quello di diventare la regione meridionale di un sistema economico a trazione franco tedesca. La nostra ambizione deve rimanere quella di essere una nazione centrale nel Mediterraneo, luogo primario dello scambio commerciale globale. Sul piano geopolitico e non solo economico si tratta di un rischio che dobbiamo assolutamente scongiurare con una strategia adatta.
La disomogenea distribuzione delle opportunità
La dinamica che la politica si trova a dover affrontare e scongiurare è quindi oggi legata soprattutto alla disomogenea distribuzione delle opportunità sul piano territoriale e sociale.
- Sociale: una parte minoritaria del paese crea valore ed è iperproduttiva e una maggioranza è meno produttiva, con salari bassi o che alimenta settori non meritocratici e a basso valore aggiunto, tra cui la pubblica amministrazione.
- Territoriale: questa differenziazione sociale si riproduce anche sui territori, con una riconfigurazione delle opportunità che determina una migrazione interna delle competenze e dei laureati verso le aree più dinamiche o all’estero. Privando i territori che necessitano di riqualificazione e innovazione dei giovani più preparati e motivati.
In assenza di una adeguata strategia di investimenti e politiche pubbliche per la valorizzazione del capitale umano, la promozione delle competenze e l’innalzamento del valore aggiunto, rischiamo che prevalga una economia a basso valore aggiunto e bassa tecnologia. Condizionata al ribasso da una committenza sempre meno italiana e soprattutto sempre più indifferente al nostro territorio e ai bisogni della popolazione.
Investimenti e capitale umano
Gli investimenti necessari per affrontare questo snodo devono considerare due temi:
- capitale umano e gestione del passaggio generazionale;
- ripresa dell’iniziativa produttiva nei territori in cui si è arrestata l’espansione, per spostare l’asse dello sviluppo più a Sud.
Ci sono due fenomeni studiati nel 2023 dall’Inapp. Se guardiamo le proiezioni al 2027, due regioni da sole faranno più di un terzo del valore aggiunto complessivo italiano: la Lombardia (23%) e il Lazio (11%). Se a queste regioni aggiungiamo l’Emilia-Romagna e il Veneto abbiamo già superato la metà del valore aggiunto italiano. Ossia il 54%, che viene quindi determinato da sole quattro regioni su venti.
Se osserviamo la quota di unità di lavoro, la distribuzione regionale già verificata per il valore aggiunto impatta anche sull’occupazione. Il 30% dei lavoratori italiani nel 2027 sarà presente solo in Lombardia e Lazio. Se a queste regioni aggiungiamo Veneto ed Emilia-Romagna arriviamo al 48%dei lavoratori italiani presenti in queste sole quattro regioni. Si tratta di mere stime, che non tengono ancora conto dell’impatto delle politiche e degli investimenti, ma che devono far riflettere.
Il grande passaggio generazionale
La principale opportunità di cambiamento in questi anni riguarda il passaggio generazionale. Bisogna saperlo guidare, gestire e portare a compimento con una strategia condivisa. Molto di ciò che desideriamo per il nostro Paese dipende da questa capacità. Siamo entrati nella fase di avvio del pensionamento dei cosiddetti boomer, la generazione di coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964. Le coorti dei nati tra il 1956 e il 1964 corrispondono agli anni di maggiore natalità della nostra storia.
Secondo le rilevazioni, abbiamo nei prossimi 5 anni più di quattro milioni di boomer che andranno in pensione. Questo fenomeno determina un passaggio generazionale mai visto prima, con circa 3 milioni e 700mila posti di lavoro che si rendono disponibili, dei quali più di tre milioni per rimpiazzo, di cui 700mila nella Pubblica Amministrazione. Si tratta di una occasione storica che non va gestita solo attraverso una logica di mera sostituzione. Non è mai così perché i ricambi generazionali sono al tempo stesso un momento importante per l’economia, ma anche per la cultura e la società.
Il passaggio generazionale è anche il momento in cui si fa innovazione, perché le generazioni lavorano in modo diverso, si cambiano metodi, logiche e processi di lavoro. Ma anche in cui si perpetua la tradizione, ossia quanto decidiamo di trasferire da generazione in generazione. Le politiche e gli investimenti per il capitale umano sono sempre determinanti, ma in una fase di passaggio generazionale lo diventano ancora di più. La sfida che ci stiamo oggi giocando come paese è in primo luogo quella delle competenze.
L’aumento del disallineamento
In questa fase di crescita la grande occasione che rischiamo di perdere è quella che è determinata dalla combinazione tra la carenza e il disallineamento delle competenze. I dati sono espliciti: la difficoltà di reperimento del personale riguardava il 26% delle assunzioni (in valore assoluto 1,2 milioni) nel 2019, prima della pandemia. Mentre nel 2022 ha riguardato il 42% delle assunzioni e nel 2023 tale quota ha superato il 46% delle assunzioni (quasi 2,5 milioni in valore assoluto).
Nel periodo 2024-2028 le difficoltà di reperimento della manodopera sembrano quindi destinate a perdurare. Avendo ormai assunto delle dimensioni strutturali soprattutto a causa degli andamenti demografici. Senza una inversione di rotta nella strategia e nelle politiche, la media della difficile reperibilità è destinata a superare il 50%. Con il dato del 55% nel manifatturiero e in alcune figure chiave per il Made in Italy.
Gli scenari sui fabbisogni dei diversi settori produttivi nei prossimi anni dovranno confrontarsi anche con la crescente difficoltà che le imprese dichiarano nel reperimento del personale. Un fenomeno che si riscontra non solo in Italia ma in quasi tutte le economie ad avanzato sviluppo. Per l’Italia, tuttavia, queste difficoltà assumono dimensioni rilevanti per un complesso di motivazioni che comprendono:
- condizione demografica e carenze nel collegamento tra sistema formativo e mercato del lavoro;
- bassi salari e bassa produttività in diversi settori economici, nonché cambiamenti socioculturali che incidono su motivazioni e aspettative soprattutto dei giovani;
- perduranti carenze relative ai canali di selezione utilizzati dalle imprese e al sistema delle politiche attive del lavoro, che resta inadeguato in alcuni territori.
I fattori determinanti sono diversi e per questo motivo non esiste un’unica soluzione. Sono necessarie politiche combinate e una azione strategica.
Le competenze necessarie
Il fabbisogno totale stimato da Unioncamere nei prossimi 5 anni (periodo 2024-2028) è consistente. Ed è valutato in media di 3.700.000 unità di lavoro a tempo pieno. La distribuzione nei prossimi anni vede il Nord Ovest con 1.010.000 unità, ossia il 27% del totale, il Nord Est con 780.000 ossia il 22%, il Centro 735.000 pari al 20%. Un dato confortante riguarda il Sud e le Isole con 1.120.000, che corrisponde al 30% della domanda di lavoro.
Tuttavia, alla domanda non sta corrispondendo una adeguata capacità di risposta. Il rischio che dobbiamo scongiurare è che questa potenzialità di 3.700.000 mila posti di lavoro si traduca nel dato reale di meno di due milioni di competenze individuate, selezionate ed effettivamente assunte. A fronte del contemporaneo pensionamento di 4 milioni di italiani, dovremmo infatti metterne al lavoro di più e non di meno.
Il peso dello skill shortage
Il tema delle competenze è centrale non solo per l’andamento dell’economia, ma anche per quello dei conti pubblici. Va quindi approfondito il problema dello skill shortage. Ossia della carenza di competenze, uno dei fattori che determina il disallineamento. Per affrontarlo, ci viene in soccorso l’analisi pubblicata da Unioncamere per il Ministero del Lavoro per la rilevazione dei fabbisogni. Nel quinquennio 2024-2028, per l’insieme dei settori privati e pubblici, circa il 41% del fabbisogno totale dovrebbe interessare dirigenti, specialisti e tecnici (tra 1,3 e 1,5 milioni di unità).
Dal confronto con l’attuale distribuzione dello stock occupazionale, dovrebbero aumentare anche le professioni impiegatizie, per effetto della richiesta da parte della PA derivante dal ricambio generazionale. Mentre diminuirebbero operai specializzati (dal 15% dello stock all’11% del flusso di fabbisogni occupazionali) e conduttori di impianti (dall’8 % dello stock al 6% del flusso). Per quanto riguarda i livelli di istruzione, circa il 38% del fabbisogno occupazionale riguarderà professioni con una formazione terziaria (laurea, diploma Its Academy o Afam). Il 4% profili con un diploma liceale e il 46% personale in possesso di una formazione secondaria di secondo grado tecnico-professionale.
L’aumento della domanda di profili con competenze universitarie e post diploma da parte delle imprese è un altro buon segnale che dobbiamo saper cogliere e stimolare. In particolare, nell’istruzione terziaria sarà elevato il fabbisogno di persone con un titolo in ambito Stem. Che determinerà un significativo mismatch rispetto alla presenza di giovani in possesso di questo tipo di formazione che faranno ingresso nel mercato del lavoro.
Per l’insieme dei percorsi Stem potrebbero mancare, secondo l’ultimo rapporto Excelsior, tra 8mila e 17mila giovani ogni anno, soprattutto con una formazione ingegneristica e in scienze matematiche, fisiche e informatiche. Per quanto riguarda gli altri indirizzi, si attende una carenza di offerta per l’indirizzo insegnamento e formazione, economico-statistico e medico-sanitario. Lo stesso vale per la formazione secondaria di secondo grado tecnico-professionale, con un’offerta in grado di coprire solo il 70% dei fabbisogni, trasversalmente a quasi tutti gli indirizzi formativi.
Una sfida cruciale
Questo “miss matching” costa a tutti noi. Il disallineamento tra le esigenze del sistema e le disponibilità effettive di competenze sul mercato costituisce un ulteriore fattore di criticità e una sfida cruciale dei prossimi anni. Rischiano di aumentare anche i costi derivanti dal minor valore aggiunto che sarà possibile produrre nei diversi settori economici a causa del ritardato o mancato inserimento nelle imprese dei profili professionali necessari.
Unioncamere ha stimato che il costo del mismatch è stato pari a 44 miliardi nel 2023. Corrispondente a una perdita di valore aggiunto del 3,4% di quanto generato dai settori privati industriali e del 2,5% del Pil italiano. Gli interventi per ridurre il disallineamento rappresentano quindi il principale investimento necessario al nostro paese per sostenere la ripresa sociale ed economica.