Settimana corta, anche l’Italia ci prova

Tra potenzialità, curiosità e timori, la settimana lavorativa corta è ormai un tema centrale per l’evoluzione del mondo del lavoro, anche in Italia. Sulla scia dello smart working, si prova - con fisiologica fatica - a erodere l’idea che quantità equivalga a qualità ed efficienza, verso relazioni di lavoro orientate agli obiettivi e al benessere delle persone

0
1083
Settimana corta: come l'Italia ci sta provando

di Maria Cecilia Chiappani |

Contrattualizzare prestazioni lavorative di 4 giorni, spesso con orario giornaliero ridotto, per favorire il work-life balance, trattenere le persone ed essere competitivi.

Più che una tendenza, la settimana corta rappresenta una sfida per le aziende italiane. Proprio come nel caso dello smart working – forse di più – possiamo ritenerla un futuribile cambio di paradigma, che coinvolge imprese, lavoratori, sindacati, politica e opinione pubblica nella ricerca di una nuova normalità che ridisegna il senso stesso del lavoro e della produttività delle persone. A maggior ragione in Italia, dove le peculiarità del tessuto imprenditoriale ne rendono ancora più complessa la regolamentazione.

Cos’è la settimana corta

In questa sede, consideriamo un modello di settimana lavorativa di 4 giorni anziché 5, come attualmente previsto in diversi settori dei servizi e dell’industria. Può comportare una rimodulazione orizzontale, riducendo l’orario di lavoro ogni giorno, oppure l’eliminazione di una giornata, con eventuale “compressione” degli orari nelle altre. In generale, per quanto visto nelle prime esperienze del mondo anglosassone, lo stipendio mensile rimane sostanzialmente invariato.

In Italia si può fare o no? Il Governo ha ripreso l’argomento della sperimentazione della settimana lavorativa corta per superare la vigente contrattazione “standard”, ovvero 5 giorni da 8 ore (40 ore settimanali). In particolare, il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso si è dimostrato aperto al dialogo. Sottolineando però la necessità di valutare approfonditamente pro e contro, dando priorità alla produttività e alla competitività. Anche Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, ha garantito in diverse occasioni la disponibilità ad avviare il ragionamento, purché si mantenga un atteggiamento fattivo e non ideologico sul tema.

Vantaggi e svantaggi: il dibattito è aperto

Difficile trovare un parere unanime. Sul fronte dei lavoratori, i timori riguardano le modifiche degli orari di lavoro e il loro influsso sulla vita privata. Prendiamo l’esempio di un genitore. La settimana corta, ma con orario giornaliero aumentato, potrebbe incidere negativamente sulla gestione dei figli. Il modello, invece, può davvero migliorare la qualità del lavoro. Secondo diverse ricerche, infatti, chi lavora meno ore riesce a essere più attento, coinvolto e, dunque, produttivo.

Inoltre, la settimana corta appartiene alla galassia del lavoro flessibile, permettendo, sempre teoricamente (vedi i dubbi espressi poco sopra) di conciliare l’impiego con gli impegni personali, vivendo più serenamente la vita professionale e “rendendo” di più.  C’è poi il branding: le aziende che applicano il modello della settimana corta, come accade per lo smart working, migliorano l’immagine e attirano talenti. Questo vale soprattutto per la Gen Z, particolarmente attenta ai valori aziendali.

Per applicare in modo fluido questo strumento, tuttavia, serve snellire l’apparato burocratico italiano. Mentre le aziende, dal canto loro, sono chiamate a evolvere mentalità e processi. Come in tutti i cambiamenti epocali, infatti, molte realtà non sono pronte alla svolta. I principali ostacoli, specialmente nelle piccole e medie imprese e nel manifatturiero, riguardano innovazione digitale, competenze, gestione del tempo e cultura manageriale. La soluzione, a detta degli esperti, potrebbe essere una progressiva sperimentazione del modello, accompagnata da analisi periodiche.

L’esperienza di chi ci crede

Pioniera di questo nuovo approccio al lavoro è PA Advice, società campana di consulenza strategica per soluzioni IT e digitalizzazione dei processi nella pubblica amministrazione. Il progetto coinvolge 43 professionisti, con un’età media di 35 anni, nella riduzione dell’orario di lavoro settimanale da 40 a 36 ore a parità di stipendio. Più strutturata l’esperienza di Intesa Sanpaolo, che da gennaio 2023 propone ai dipendenti del gruppo che operano in Italia diverse opzioni di flessibilità. Tra queste, la settimana lavorativa di 4 giorni da 9 ore lavorative (retribuzione invariata), su base volontaria, senza obbligo di giorno fisso e compatibilmente con le esigenze tecniche, organizzative e produttive della banca. Le persone possono accedere individualmente alla proposta di organizzazione del lavoro, all’interno di una sperimentazione che tocca circa 200 filiali.

Anche Magister Group ha avviato lo scorso febbraio una fase di test sui 250 dipendenti delle controllate Ali Lavoro e Repas. Si prevede una settimana lavorativa corta, con monte orario di 32 ore, senza riduzione dello stipendio. Stessa filosofia per un simbolo dell’italianità quale Lavazza, che propone molteplici opzioni di lavoro flessibile per favorire il benessere dei dipendenti, quali appunto il venerdì breve, che consente loro di uscire prima dall’ufficio tra maggio e settembre.

Significativo, in tale prospettiva, il messaggio lanciato da Stefano De Toni, titolare di Cadtec, in un’intervista al Giornale di Vicenza. “Quando parlo con altri imprenditori a volte mi dicono: sei pazzo, perdi solo tempo. Ma qui non abbiamo risorse, bensì persone che hanno instaurato tra loro, e con me, un clima di confronto stimolante per la crescita personale e collettiva. La settimana corta ha, tra i principali obiettivi, quello di mostrare quanto il bene più importante nella vita sia il tempo stesso”. Così, l’azienda di software con sede a Thiene (VI) propone, tra le svariate iniziative di welfare, il “light friday”. Ovvero, la possibilità per i dipendenti di attivare un contratto full-time a 36 ore (stipendiate come 40).

Cosa pensano i lavoratori della settimana corta?

L’interesse c’è: quasi un terzo dei lavoratori vorrebbe quantomeno provare la settimana di 4 giorni. Lo rivela il Randstad Workmonitor, indagine rivolta a 1.000 dipendenti italiani di età compresa tra 18 e 67 anni. Il 9% di loro vorrebbe continuare a lavorare secondo gli orari tradizionali ma in giorni diversi. Il 14% predilige turni separati (mattina presto e sera tardi) e un altro 6% la notte. Meno di un lavoratore italiano su due, il 43%, manterrebbe gli attuali giorni e orari.

La sensibilità cambia anche in base all’età. A preferire la settimana corta sono soprattutto le persone tra i 35 e i 44 anni, il 32% del totale. Percentuale che scende al 31% tra i 55 e i 67 anni, al 30% tra i 25 e i 34 anni e al 28% tra i 45 e i 54 anni. Nella fascia 18-24 anni, solo il 16% dei giovani vorrebbe lavorare su 4 giorni. Quanto alle mansioni, i primi “estimatori” della settimana corta sono gli impiegati (32%) e gli operai (15%). Di certo, quasi tutti i lavoratori italiani – l’83% – apprezzano la flessibilità di orario.

Una flessibilità che molti stanno già sperimentando: il 27% ne ha vissuto l’introduzione negli ultimi 12 mesi. Il 35%, infine, ritiene la mancata flessibilità oraria un motivo valido per non accettare un’offerta di lavoro. “I risultati delle prime sperimentazioni sono interessanti, ma è difficile immaginare i possibili effetti della settimana di 4 giorni su larga scala” commenta Valentina Sangiorgi, Chief HR Officer di Randstad. “Molti italiani sono favorevoli, ma il tema è divisivo, viste le preferenze discordanti circa il tipo di modifica. In generale, la rimodulazione dell’orario di lavoro può generare benefici per lavoratori e aziende, ma deve tenere in considerazione le esigenze di tutti: di chi ricerca un giorno libero in più e di chi necessita piuttosto di una giornata corta. Al di là delle mode, è importante compiere scelte organizzative in grado di soddisfare i bisogni delle persone”.

LAVORARE TUTTI, LAVORARE MENO?

Sulle difficoltà strutturali e culturali del nostro Paese si è soffermato anche il sociologo Domenico De Masi (ndr: mentre la rivista andava in stampa, abbiamo appreso della sua morte).

“Il fenomeno delle grandi dimissioni durante la pandemia? È destinato a continuare e ad aumentare” si legge nell’articolo del Fatto Quotidiano dedicato a un suo recente intervento su Radio Cusano Campus. “Cresce infatti la percentuale di persone che, pur prendendo atto del fatto che il lavoro sia importante, sa che esso non rappresenta tutto, non è così fondamentale da poter assorbire il resto della vita. Questo va ricordato soprattutto in Italia e nei Paesi latini, dove c’è un approccio demenziale verso il lavoro”.

Un “overtime” di lavoro ingiustificato, mentre le percentuali di occupazione dei giovani sono ai minimi storici. Per esempio, in Germania milioni di lavoratori dedicano una parte notevole della loro vita allo svago, alla famiglia, ai rapporti umani. Mentre da noi si continuano a trascorrere molte più ore del dovuto in ufficio. Ma la produttività tedesca è del 20% superiore a quella italiana, nonostante in Germania si lavori il 20% in meno, dirigenti compresi. Il problema non riguarda solo i datori di lavoro, è di natura sociale, politica ed educativa. Tornando al modello tedesco, “man mano che si sono accavallate le ondate del progresso tecnologico, parallelamente è stato ridotto l’orario. Attualmente si lavora 32 ore alla settimana, 28 per i metalmeccanici”, aggiunge De Masi.

 

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here