Il lavoro dentro e fuori la crisi

Lo scenario post Covid del lavoro in Italia: una ripresa rallentata ma non compromessa

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Crisi e lavoro: analisi di Romano Benini

di Romano Benini |

Le condizioni per lo sviluppo sono determinate, o quantomeno condizionate, da diversi fattori.

La speranza che il venir meno dell’emergenza Covid portasse con sé un ritorno alla situazione precedente la pandemia era stata alimentata dai buoni risultati per l’economia intervenuti nel corso del 2021 in buona parte dei Paesi occidentali. In particolare, era stata proprio l’Italia a vivere nei mesi scorsi l’effetto del “rimbalzo” con la progressiva riapertura dei luoghi di lavoro e un miglioramento della situazione economica che aveva portato a una robusta crescita del Pil.

Tuttavia, come è noto, il principale fattore esogeno di condizionamento, ossia l’impatto della pandemia, non è stato ancora del tutto debellato e soprattutto nel corso di quest’anno la situazione dell’economia mondiale ha subito altre nuove condizioni, che rallentano fortemente la ripresa. L’effetto della guerra tra Russia e Ucraina impatta sui mercati finanziari e le conseguenze di questa crisi internazionale sul costo dell’energia costituiscono aspetti davvero significativi per la ripresa economica.

Crisi ed elementi di difficoltà del 2022

Così come l’Italia aveva lo scorso anno beneficiato delle migliori condizioni per uscire dalla crisi, le vicende geopolitiche del 2022 trovano ancora l’Italia in prima linea a subire stavolta le conseguenze della crisi Ucraina a causa dell’alta dipendenza dell’economia italiana dal gas russo. E per l’impatto significativo del blocco commerciale con la Russia sull’export di alcune componenti importanti del Made in Italy, come il tessile e calzaturiero.

Se il 2021 era quindi terminato con i migliori auspici, non si può dire altrettanto per il 2022, che vede un generale rallentamento della ripresa economica globale, che in Italia trova alcuni elementi di maggiore difficoltà. A questo scenario si collega anche la spinta inflazionistica, che è ripresa con vigore in questi mesi nei paesi occidentali e che si lega anche alle difficoltà nell’affrontare le sfide strutturali di questa difficile stagione. L’aumento dell’inflazione accompagna ogni fase di transizione e questa è una delle transizioni più lunghe, difficili e complesse. Esiste una interdipendenza globale che rende più vulnerabili proprio quei Paesi in cui l’export e la produzione di valore sono determinanti, come l’Italia.

Le sfide per l’Italia

Le sfide strutturali da affrontare sono quanto meno di due livelli:

  1. precondizioni per lo sviluppo (dall’ecosostenibilità all’impatto del riscaldamento globale, dall’invecchiamento demografico all’indipendenza energetica);
  2. politiche per lo sviluppo (dalla governance dell’economia al rafforzamento delle competenze, dal funzionamento del mercato del lavoro all’innovazione nei sistemi produttivi e organizzativi, al rafforzamento delle infrastrutture).

Il rallentamento di questi mesi è determinato dalla vicenda della crisi Ucraina, ma anche dal fatto che l’Europa e in particolare l’Italia, si trovano ancora “in mezzo al guado” rispetto alle riforme e alle scelte strategiche definite e finanziate attraverso la strategia del Pnrr. Secondo gli osservatori economici, l’Eurozona nel 2022 è destinata a crescere intorno al 2,5% del Pil, ma lo scenario è visto in peggioramento, con la previsione di una crescita limitata all’1,5% per il 2023. La crisi Ucraina si inserisce, quindi, in un quadro di difficoltà già esistente e certamente l’Italia non potrà nei prossimi mesi essere priva di una salda guida politica, in grado di traghettarla verso sponde migliori. Tuttavia, dati alla mano, non deve prevalere il pessimismo, se consideriamo la spinta avviata nel 2021 e l’impatto delle riforme in atto. Sempre che il quadro politico in divenire ne consenta una efficace attuazione.

Lo snodo delle competenze e delle riforme

Le proiezioni economiche dipendono certo anche da fattori esterni, come abbiamo capito durante i mesi più duri della pandemia da Covid 19 e come è oggi reso evidente dall’impatto della guerra sui costi dell’energia. Tuttavia, la capacità di resilienza dipende anche dalla capacità di governo e dalla promozione di adeguate riforme. Le riforme in corso sostenute dal Pnrr possono determinare in questo senso un miglioramento del Pil e conseguentemente dell’occupazione nonostante tutto ancora piuttosto significativo. L’attuazione del piano di investimenti e di riforma del Pnrr può causare nel prossimo anno un rafforzamento del Pil italiano stimato intorno all’1,4%. E un incremento delle opportunità occupazionali di circa 400mila unità di lavoro.

Nella situazione auspicata nel 2021 questo impatto era ben maggiore, quasi il doppio, ma la crisi Ucraina e il rallentamento della crescita globale, con l’aumento dell’inflazione, spingono oggi gli esperti a una maggiore cautela. Si tratta di condizioni minime e di partenza, che possono essere compromesse solo da un aggravarsi della crisi della politica italiana e da una minore efficacia dell’azione di governo.

Previsioni per il 2023

Per il prossimo anno da un lato è prevista una diminuzione dell’inflazione e dell’aumento dei prezzi e una ripresa dell’export. Ma è probabile anche un rallentamento della domanda di lavoro, soprattutto per quanto riguarda le ore lavorate. Tuttavia, anche a fronte dell’andamento demografico, dovremo avere mesi di assestamento dell’occupazione, con una diminuzione del tasso di disoccupazione previsto a partire dal 2023. Nonostante la crisi Ucraina, i prossimi mesi, secondo i maggiori osservatori, non dovrebbero quindi vedere un aggravarsi della situazione del mercato del lavoro, quanto la presenza di difficoltà di altro genere. Destinate ad aggravarsi nel caso di prolungamento della guerra o di una crisi politica che non permetta all’Italia di rispettare gli impegni del Pnrr e, quindi, di non destinare le risorse agli obiettivi delle riforme e dei bandi europei.

In questo quadro vanno segnalati alcuni investimenti fondamentali per la tenuta del mercato del lavoro italiano, che avranno conseguenze determinanti sulle dinamiche occupazionali:

  • attuazione delle riforme legate alle politiche attive e alla formazione, in particolare il programma Gol, in ragione del grave deficit di occupabilità dei disoccupati italiani;
  • piano di rafforzamento dei servizi per l’impiego, per il cronico ritardo dei centri per l’impiego italiani nella promozione delle politiche attive e nella presa in carico dei disoccupati;
  • potenziamento e riforma degli Its (Istituti tecnologici superiori), chiamati a rispondere alla domanda di competenze di difficile reperibilità in diversi settori chiave del Made in Italy.

Si tratta di tre riforme chiave, che hanno visto la condivisione dei decisori politici e che non possono essere in questa fase compromesse o rallentate. Sono riforme realizzabili solo attraverso il concorso delle regioni e la grave distanza in termini di efficacia amministrativa tra le regioni italiane implica quantomeno il rafforzamento della funzione di coordinamento prevista dalla Costituzione da parte del governo. Lo snodo della governance è determinante per le politiche che riguardano il lavoro e lo sviluppo in Italia.

Se il problema del lavoro italiano resta ancora legato soprattutto al problema delle competenze dei disoccupati e non solo alla domanda delle imprese, come è stato fino ai mesi scorsi, ci sono le condizioni per uscire dalla crisi del lavoro realizzando in primo luogo gli investimenti indicati dal Pnrr nel rispetto dei tempi previsti. Le sorti della nostra economia, e quindi dell’occupazione, non dipendono solo da questi sforzi, ma si tratta in ogni caso di obiettivi pregiudiziali e di riforme attese e necessarie.

Il rischio sociale e le condizioni della disuguaglianza

In questa situazione di rallentamento, in Italia come nel resto dell’Occidente, c’è il rischio di un aggravamento della situazione sociale, che nei mesi scorsi ha già visto il peggioramento della condizione di vita e di lavoro dei ceti più esposti alla crisi. Esiste anche in Italia un rischio sociale, che riguarda i disoccupati. Ma anche i tanti lavoratori con famiglie a basso reddito. In questo senso nei mesi scorsi questo fenomeno ha portato a una situazione difficile, che possiamo cogliere bene dai dati dei rapporti dell’Istat, le cui conseguenze rischiano di diventare centrali in questi mesi sulla scena italiana:

  • il lavoro standard (ossia i lavoratori a tempo pieno dipendenti o autonomi) è calato e riguarda circa il 60% degli occupati, con un aumento progressivo dei lavoratori a tempo parziale, che costituiscono quasi il 40% dei giovani (il 47% delle giovani donne under 35 è “non standard”);
  • negli ultimi vent’anni la povertà assoluta è raddoppiata e riguarda quasi due milioni di famiglie (sei milioni di persone) e coinvolge soprattutto i minori, in quanto un milione di giovani italiani è in povertà assoluta e la maggior parte di questi non sono occupabili perché privi di competenze adeguate o non hanno assolto all’obbligo formativo;
  • la povertà assoluta riguarda un meridionale su dieci e un immigrato su tre;
  • si è aggravata, anche a seguito della didattica a distanza, la differenza di rendimento scolastico tra i giovani italiani, con un significativo peggioramento per gli studenti delle scuole delle regioni meridionali;
  • più del 40% degli studenti italiani ha difficoltà nell’apprendimento della matematica e della lingua italiana, dato che sale al 60% in Calabria e Campania.

A questi dati si collegano quelli relativi al peggioramento delle diseguaglianze salariali. Quasi il 30% dei lavoratori dipendenti italiani, ossia 4 milioni, sono lavoratori poveri, in quanto titolari di una retribuzione lorda annua inferiore ai 12mila euro. Si tratta soprattutto di giovani e donne, i più interessati all’introduzione di un meccanismo di salario minimo di base. I mesi della pandemia non sono stati socialmente neutri. Le difficoltà hanno infatti colpito di più chi già stava peggio, aumentando di conseguenza le disuguaglianze. Questo fenomeno appare in Italia più grave, in quanto le famiglie povere non sono solo aumentate, ma chi vive una condizione di povertà o disoccupazione fa più fatica ad uscirne.

Il problema della disuguaglianza nei Paesi liberali può essere gestito solo se ci sono strumenti che rendono possibile uscire da questa condizione. Ma questo fenomeno in Italia negli ultimi anni si è reso più difficile per alcune categorie specifiche: gli immigrati, i giovani meridionali e le donne. Quando i poveri sono sempre gli stessi vuol dire che viviamo in una società bloccata e chiusa. A fronte di questi dati sembra evidente come i mesi tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 saranno determinanti per un possibile cambio di rotta. Ma anche come sia necessaria un’adeguata capacità di governo e di attuazione delle riforme.

Il rischio politico e della capacità di governo

Questo scenario mostra come nei prossimi mesi sia determinante per l’Italia la capacità di governo: è infatti il periodo dell’autunno del 2022 quello in cui tutti i nodi sono destinati a venire al pettine. La capacità di guida politica è attesa dagli italiani, ma è necessaria anche nel contesto dell’Unione Europea. In ragione della combinazione tra i fattori esogeni ed endogeni di questa crisi, che sembrano destinati ad acuirsi proprio nell’autunno di questo 2022:

  • permanenza di alcuni effetti della pandemia e le conseguenze della crisi Ucraina sul costo dell’energia e sulle esportazioni;
  • perdita del potere di acquisto degli italiani dovuta a una inflazione che erode salari mediamente al di sotto della media degli altri paesi industrializzati;
  • ritardo nell’attuazione delle riforme e della capacità di spesa delle risorse del Pnrr;
  • rallentamento della crescita, della domanda e il calo dei consumi interni.

Per riuscire a rispondere a questo passaggio di fase è necessario un governo efficiente. Dotato di pieni poteri e in cui non trovino spazio i veti incrociati dei partiti politici e al tempo stesso in grado di portare a termine le riforme da cui dipende l’erogazione delle risorse per gli investimenti del Pnrr. In particolare, sono attesi interventi in grado di rimettere gli italiani al lavoro. Aumentando la percentuale di occupati a tempo pieno e indeterminato e la capacità del sistema di generare un aumento della domanda delle imprese, che sia stimolato anche da una ritrovata qualità dell’offerta di lavoro. Dopo anni in cui all’aumento della disoccupazione si è accompagnata una diminuzione delle competenze degli italiani, che ha prodotto gravi effetti sul mercato del lavoro.

L’erogazione di forme di sostegno, soprattutto in termini di contributi e non di sostegno agli investimenti, non ha aiutato nei mesi scorsi la capacità di resilienza del sistema sociale ed economico italiano. La capacità di governo va vista sempre di più come capacità di progettare e gestire politiche pubbliche in grado di stimolare la capacità del sistema economico di generare valore, attraverso gli investimenti, la qualità del lavoro e la produttività. Ma perché questo avvenga vanno completate entro l’anno le riforme che l’Europa ci ha chiesto e vanno cambiati anche alcuni modelli di intervento seguiti in questi mesi, che rischiano di essere controproducenti.


Romano Benini è professore straordinario di sociologia del welfare alla Link Campus University e docente a contratto presso La Sapienza. Svolge attività di consulenza sulle politiche del lavoro per diverse istituzioni. È esperto della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, autore del format di Rai 3 “Il posto giusto” e di numerosi testi in materia di lavoro.

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