Le politiche attive viste dalle imprese: aspettative vs realtà

Se la pandemia ha stravolto il mondo del lavoro italiano, il motore della ripartenza acceso anche dal Pnrr impone nuove riflessioni sulla gestione delle dinamiche transizionali e sugli strumenti a disposizione di aziende, lavoratori ed enti

0
109
Politiche attive del lavoro: le aspettative delle imprese

di Maria Cecilia Chiappani |

Il tema delle politiche attive non è certamente nuovo, nel panorama politico e sindacale italiano. Appare invece urgente ridiscutere gli strumenti a disposizione di aziende, lavoratori ed enti a fronte del “boom” di transitorietà generato da questo inaspettato periodo storico. Ma, soprattutto, allineare gli interventi istituzionali, ancora troppo ancorati a logiche riparatorie, alle mutate esigenze di valorizzazione del capitale umano e di collaborazione tra pubblico e privato.

La chiamata viene dagli operatori stessi, le aziende e gli enti, che hanno espresso la propria visione nell’ambito della ricerca “Le politiche attive nei moderni mercati transizionali del lavoro”, promossa da Assolombarda in collaborazione con Adapt. Attraverso specifici focus group, infatti, 46 imprese di diversi settori e dimensioni, operative tra i territori di Milano, Pavia, Monza e Lodi, hanno dato voce alle esperienze e ai desiderata sul tema. Insieme al mondo imprenditoriale, i ricercatori hanno coinvolto i responsabili di servizi per il lavoro pubblici e privati operativi nel territorio lombardo. Questo al fine di integrare i due punti di vista e di individuare le aree di intervento per affrontare in modo condiviso le problematiche occupazionali presenti e future.

Punto primo: definire le politiche attive

Praticamente tutti i partecipanti intendono le politiche attive come misure in grado di accompagnare l’ingresso di nuove risorse in azienda, ma anche politiche formative e strumenti di outplacement. La formazione, infatti, assume un ruolo chiave nella carriera del lavoratore, pensando in particolare ai percorsi di upskilling e reskilling conseguenti ai processi di riorganizzazione. In generale, l’obiettivo principe di questi provvedimenti dovrebbe essere riqualificare le persone operando sul lungo termine e coinvolgendo tre soggetti: azienda, pubblico e beneficiario. Nella realtà dei fatti, queste politiche vengono spesso applicate male e in ritardo.

Altrettanto auspicabile, un intervento che favorisca la creazione di network tra imprese per la gestione delle mobilità esterne. Oggi, soprattutto nelle aziende di grandi dimensioni o multinazionali, queste azioni si svolgono internamente, tramite policy aziendali o di gruppo. Ed è raro che si attivino collaborazioni per gestire le transizioni dei lavoratori. La necessità di percorsi formativi anche per il management e la rappresentanza, nell’area del change management, conferma questa idea di politica attiva come strumento di supporto al cambiamento e non semplice leva di ricollocazione dei disoccupati.

Il volto delle aziende è cambiato

Tali considerazioni si inseriscono in un contesto di forte cambiamento per lo stesso mondo imprenditoriale. La pandemia ha accelerato la digitalizzazione, nei processi produttivi come nello smart working, imponendo alle aziende importanti investimenti nella formazione. Qui, solo in rari casi si è fatto ricorso a strumenti di supporto come il “Fondo Nuove Competenze”. Il motivo, come sempre, è burocratico: troppe difficoltà legate alle tempistiche per la presentazione delle domande e la realizzazione degli interventi. C’è di più: la crisi ha aggravato i fenomeni di skills shortage, riducendo ulteriormente la base dell’offerta e rendendo ancora più difficile individuare persone con le competenze necessarie.

Quanto alla diffusione dello smart working, la strada è ancora lunga: le aziende e i lavoratori non sembrano aver modificato le attitudini sostanziali. Da entrambe le parti, forse, manca ancora l’accettazione profonda di un nuovo modello basato sul lavoro per obiettivi. Una nota positiva: la “remotizzazione” del lavoro ha fatto emergere nuove opportunità nei processi di reclutamento a distanza e nell’offerta di posizioni lavorative senza vincoli di spazio. In sostanza, risulta più facile attrarre risorse qualificate residenti in territori lontani dalla sede aziendale quando non si richiedono trasferimenti. Dall’altro lato, purtroppo, ci sono realtà (soprattutto nel settore chimico) che lamentano la riduzione di personale e l’assenza di politiche attive per sostenere la riqualificazione dei lavoratori licenziati o in via di uscita.

L’intervento pubblico? Non pervenuto

Tutte le imprese interpellate manifestano insoddisfazione circa il ruolo dell’attore pubblico nel supportare le transizioni occupazionali delle persone in ingresso, all’interno e soprattutto in uscita. Anzi, i focus group non evidenziano esperienze significative di collaborazione con la rete dei servizi per il lavoro per l’individuazione di nuove risorse. L’outplacement risulta infatti tipicamente organizzato e gestito dall’azienda stessa, supportata semmai da servizi privati specializzati. Ma spesso si tratta di accompagnare il lavoratore all’uscita, con un deciso sbilanciamento verso gli aspetti economici, più che di assicurargli una efficace ricollocazione.

Il ruolo del pubblico ne esce dunque bocciato. Sia nell’erogazione di servizi e incentivi, sia nella definizione delle regole di funzionamento dei mercati del lavoro. Su quest’ultimo aspetto convergono ulteriori critiche alla rigidità del quadro normativo sulla fruizione di forme di lavoro flessibili. Le stesse Agenzie per il Lavoro e i rappresentanti dei Centri per l’Impiego confermano che non esiste un’effettiva offerta di servizi alle aziende. Eccezion fatta (lato centri per l’impiego), per il collocamento mirato dei lavoratori disabili o per l’Assegno di ricollocazione Cigs. E il sindacato? Si conferma un clima di frustrazione legato alla difficoltà di ottenere confronti proficui in tema di competenze dei lavoratori. Le aziende intervistate lo considerano un interlocutore difficile da coinvolgere in progetti di riorganizzazione e in proposte di riqualificazione del personale. Ma anche nelle fasi più critiche, in quanto troppo ancorato agli aspetti economici.

Gestire la riqualificazione dei lavoratori

Le grandi imprese, lo abbiamo detto, fronteggiano internamente ogni esigenza legata al personale. Lo fanno attraverso specifici programmi (mappatura delle performance, della formazione e dello sviluppo) e vere e proprie Academy aziendali, spesso finanziate dai fondi interprofessionali. Come confermato anche dai servizi per il lavoro, aumenta lo squilibrio tra le competenze richieste dalle aziende e quelle offerte dai lavoratori. Mentre si fa urgente la necessità di differenziare i percorsi di riqualificazione a seconda delle caratteristiche degli utenti.

Le aziende si trovano dunque ad affrontare investimenti notevoli nel processo di inserimento di una risorsa. Pur apprezzando la possibilità di accedere a finanziamenti dedicati, infatti, riscontrano in questo canale ancora troppi ostacoli burocratici. Abbastanza diffusi, il ricorso a momenti di formazione interna con affiancamento e job rotation, ma anche la formazione d’aula. Qui, però, serpeggia poca fiducia nei servizi di formazione esterni, non ritenuti in grado di intercettare i fabbisogni specifici dell’azienda. Il processo di acquisizione di nuove competenze dovrebbe essere bidirezionale, ma la sensibilità dei lavoratori sul tema non è scontata. Le aziende della meccanica, per esempio, evidenziano lo scarso interesse del personale nei confronti della formazione, avallato dal mancato impegno dei sindacati. Insomma, a volte le conquiste della contrattazione collettiva nazionale in materia di diritto soggettivo alla formazione sembrano più simboliche che sostanziali.

La partita della valorizzazione

Nel complesso, la gestione delle transizioni occupazionali viene ricondotta alla capacità di iniziativa della realtà imprenditoriale stessa. Emerge una forte consapevolezza del progressivo differenziarsi delle competenze richieste, ma anche del deficit di informazioni sui fabbisogni professionali dei dipendenti e sulle possibilità di ricollocazione nei casi di riorganizzazione o di crisi. Sulla certificazione delle competenze, poi, c’è molta perplessità. Esistono sistemi interni che restano tuttavia scollegati dal sistema pubblico di certificazione, osservato con diffidenza dagli stessi operatori dei servizi per il lavoro a causa delle diverse declinazioni regionali e della dimensione eccessivamente cartolare (perché non puntare su strumenti come i digital badge?).

Anche il tema dell’informazione sui mercati viene accolto con freddezza. Alcune aziende parlano di dinamiche competitive circa l’assunzione di personale qualificato, che non facilitano la cooperazione tra imprese.

Aziende e operatori non comunicano

Le poche esperienze relative al rapporto tra imprese e realtà di servizi riguardano la ricerca di personale, la gestione di percorsi di outplacement e l’erogazione di corsi di formazione obbligatoria. In alcuni casi, la collaborazione ha coinvolto scuole e altre istituzioni in percorsi di alternanza e apprendistato, ma emerge un quadro di sostanziale assenza di dialogo tra la rete locale dei servizi per il lavoro e la formazione e le imprese, confermata da ambo le parti.

In più, gli interlocutori pubblici non individuano nel supporto alle aziende del territorio un’area centrale della loro offerta. Mentre i soggetti privati lamentano l’assenza di un quadro giuridico-istituzionale idoneo a favorire lo sviluppo di competenze avanzate, indispensabili per gestire l’attuale complessità dei mercati del lavoro.

Come affrontare il cambio di passo?

Ripensare oggi le politiche del lavoro significa, per prima cosa, comprendere il cambiamento dei moderni mercati transizionali. La trasformazione digitale e la transizione ecologica impongono in primis l’aggiornamento dei sistemi di relazioni industriali e della rappresentanza.

Altrettanto urgente, allineare tale visione alla grande opportunità del Recovery Fund secondo due direttrici: il superamento da parte dell’attore pubblico delle politiche di ricollocazione “da posto a posto”; la correttezza delle strategie delle imprese coinvolte in importanti processi di riorganizzazione e ristrutturazione, che rischiano altrimenti di generare alti costi occupazionali e di impoverire i bacini locali di competenze e professionalità. Ecco perché investire sull’ampliamento dei sistemi territoriali e la messa a punto di strumenti per l’incontro tra domanda e offerta di competenze. Ma anche per la gestione di mobilità occupazionali protette (interaziendali) e la rilevazione dei fabbisogni professionali.

Occorre infine individuare modelli di governance capaci di valorizzare le interazioni tra politiche pubbliche e il coordinamento con i sistemi di relazioni industriali. Anche qui, la proposta passa dalla rivisitazione dei limiti concettuali e operativi dei sistemi di accreditamento nell’area dei servizi per il lavoro, la formazione e la certificazione delle competenze. Accompagnata da nuove forme di dialogo tra questa rete e gli attori della rappresentanza.

IL RUOLO DELLA FORMAZIONE IN ALCUNE “BEST PRACTICE”

1 | L’accordo tra Danone e Rsu assistita da Fai Cisl del 2017 marca un elemento di primaria importanza come la formazione professionale, sottolineando il rilievo della valorizzazione e della crescita delle Risorse Umane. Le parti stabiliscono a tal proposito che, dopo una consultazione con la Rsu, vi sia l’impegno a costruire entro il primo quadrimestre dell’anno un Piano di Formazione annuale che tenga in considerazione soprattutto i contenuti professionali e lo sviluppo delle competenze umane implicate nel contesto lavorativo.

2 | L’accordo tra la Banca Monte dei Paschi di Siena e le parti sociali del 2017 è dedicato interamente al tema della formazione, identificando affiancamenti all’ingresso, formazione interna, webinar informativi, certificazione delle competenze anche mediante enti esterni come le Università, quali funzioni chiave nella strutturazione delle competenze. I percorsi formativi sono personalizzati sulla base delle mansioni svolte, ma vi è anche una base comune che include: diffusione delle competenze digitali di base, allineamento su temi compliance, campagna informativa sui rischi. È prevista inoltre una nuova attività formativa sulla finanza comportamentale e convegni specifici per ogni settore (credito, assicurazione, rischi ecc.).

3 | L’accordo tra Unilever e Fai Cisl, Flai Cgil, e Uila Uil del 2019, nella cornice delle trasformazioni riconducibili all’Industria 4.0, si basa sulla predisposizione di programmi di apprendimento che siano indirizzati a tutti i lavoratori (differenziandoli per età), programmando nelle sedi in cui lo si riterrà opportuno, interventi di formazione specifica concernente i ruoli futuri attesi dal mercato. Verranno poi avviati sperimentalmente dei progetti in due siti. Il primo a Roma, allo scopo di aumentare la flessibilità/polivalenza delle figure professionali. Il secondo a Napoli per riconvertire l’unità produttiva in una “fabbrica digitale” secondo principi di agilità, affidabilità e produttività. Dei team incaricati mapperanno le competenze in itinere per valutarne gli impatti attuali e gli eventuali sviluppi.


Ti potrebbe interessare anche:

Nuove politiche attive per fare Gol

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here