Formazione sul filo dell’empatia

Capire dove sono i margini di miglioramento, introdurre nuove conoscenze, apprendere continuamente: a tu per tu con la campionessa olimpica, oggi consulente HR, Josefa Idem

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Josefa Idem, campionessa olimpica, speaker motivazionale e consulente HR

di Virna Bottarelli |

Nella sua lunga carriera da canoista, Josefa Idem ha imparato a dosare le energie e ha saputo trovare il giusto equilibrio tra impegno agonistico e vita privata. Oggi, oltre a essere un’icona della longevità sportiva, è psicologa, esperta di formazione e consulente HR.

Ha conquistato il primo titolo importante, la vittoria del campionato tedesco categoria “Ragazze”, quando ancora non aveva compiuto 15 anni. Era il settembre 1979, ma l’immagine di quel giorno è nitida. “Ricordo molto bene le sensazioni che ho provato durante quella gara e i gesti che ho compiuto prima dello start: ero agitata e una forte aspettativa mi aveva provocato un malessere generale. Decisi così di tranquillizzarmi facendomi una doccia e asciugandomi per bene i capelli, nonostante sapessi che una volta in acqua la piega non avrebbe ovviamente tenuto”, racconta la campionessa olimpica di canoa, che ha chiuso la carriera agonistica a quasi 48 anni alle Olimpiadi di Londra. “Vinsi con un grande vantaggio sulla seconda classificata e quei gesti, utili a gestire le forti sensazioni che, essendo molto emotiva, ho sempre provato prima di entrare in acqua, sono diventati la mia routine pre-gara”.

Le emozioni, oltre a viverle, Josefa Idem le studia. Si è laureata in Scienze e tecniche psicologiche, con specializzazione in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, e oggi è motivational speaker e consulente in ambito Risorse Umane. Ha all’attivo anche un’importante esperienza politica: è stata assessore allo sport nel Comune di Ravenna, poi senatrice e ministro per le Pari opportunità, lo Sport e le Politiche giovanili.

Ha un ricordo nitido delle emozioni provate la prima volta che ha tenuto uno speach?

In aula non mi sono mai sentita agitata come durante le gare, non ho mai avuto dubbi e titubanze. Quello della formazione è un contesto nel quale mi sono sempre sentita a mio agio, perché fin dall’inizio ho preso spunto da un terreno che conoscevo molto bene: quello dello sport. Anche quando ero ancora un’atleta tenevo degli speach motivazionali e, a detta di chi mi ascoltava, riuscivo a cogliere, declinando le tematiche sportive in chiave di impresa, la metafora adatta alla platea alla quale mi rivolgevo, il dettaglio che teneva viva l’attenzione.

Questo mi ha dato sicurezza, mi ha consentito di salire sul palco senza timore, ma mi ha anche fatto riflettere. Non volevo apparire come una persona che presentasse la propria esperienza come l’unica via possibile per raggiungere un traguardo. Penso sia importante distinguere gli aspetti grazie ai quali si è vinto da quelli nonostante i quali si è vinto. Così ho voluto approfondire le dinamiche e le relazioni che portano a una vittoria o a una sconfitta.

Quando ha iniziato a dedicarsi allo studio e come si è preparata per lavorare nel campo della formazione?

Terminata la carriera agonistica mi sono iscritta all’Università. Ho conseguito la laurea magistrale in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, poi ho frequentato un master in Psicologia dello Sport e un corso di formazione a Berlino sul Coaching sistemico. Non avrei potuto dedicarmi allo studio quando ancora ero un’atleta professionista, non avrei avuto tempo ed energie sufficienti.

Sostengo da sempre che dobbiamo mediare tra lavoro e vita privata. La vita non è fatta solo di lavoro, bisogna essere capaci di guardarci dall’esterno e trovare l’equilibrio che ci fa stare bene. L’ho fatto da atleta, economizzando le mie energie, e lo faccio tuttora. È un approccio nel quale credo molto e che cerco di trasmettere anche quando faccio formazione, intrecciando esperienze e osservazioni personali con evidenze scientifiche.

Nel suo CV c’è anche la politica: in questo ambito, quanto le è servito essere una sportiva?

Ho fatto per sei anni l’assessore al Comune di Ravenna e ho lavorato a stretto contatto con il territorio. Credo che fare politica significhi trovare soluzioni calate nella realtà. Attraverso un approccio aperto al confronto tra le parti interessate, lontano dalla logica del contrasto a prescindere, per partito preso. È questo il principio che ho voluto seguire anche quando ho fatto politica a livello nazionale.

Non nego che l’esperienza da ministro mi abbia lasciato delle cicatrici, ma mi ha dato anche la consapevolezza che vivere nella complessità non è facile, che non sempre è corretto affrontare i problemi in modo “esplosivo”, senza tenere conto delle tante sfumature che contraddistinguono le varie situazioni. Ho imparato che è meglio fondere le ragioni degli uni e degli altri, piuttosto che scinderle, e lavorare per mettere d’accordo le persone.

Oggi in che cosa consiste la sua attività?

Una parte importante della mia attività oggi è quella di consulente per la Federazione Italiana Gioco Calcio, per la quale seguo la formazione interna del settore giovanile scolastico. In un certo senso, considero questo mio impegno anche un po’ politico, perché lo porto avanti con l’obiettivo di attuare un cambiamento virtuoso nell’ambito dello sport giovanile. Facciamo una formazione indirizzata alle persone che lavorano con i più giovani e che devono possedere determinate competenze per essere all’altezza del loro compito.

Chi allena i ragazzi deve mettere da parte l’ambizione personale di conseguire il risultato, ma lavorare nell’interesse e per la crescita del giovane atleta. Accanto a quest’attività, che mi è molto cara, perché mi consente di unire la mia passione per lo sport giovanile con il mio interesse per la formazione, tengo speach motivazionali e percorsi formativi veri e propri, che metto a punto insieme all’azienda alla quale sono rivolti. In questi casi i temi che affronto sono diversi, si va dalla leadership emotiva alle modalità di comunicazione, e diverse sono le metodologie che adotto. A volte coinvolgo i partecipanti e faccio condurre a loro stessi la lezione, oppure organizzo attività outdoor che li inducono a guardarsi da un’altra prospettiva. Tutto dipende dalla platea alla quale mi devo rivolgere, che può includere profili manageriali o più operativi, e dal tempo a disposizione.

Quali sono i punti fermi del suo metodo formativo?

Mi baso essenzialmente su tre elementi. In primo luogo, offro una formazione cucita su misura, che tiene conto del contesto nel quale opera l’audience alla quale mi devo rivolgere. Per farlo, esploro la realtà concreta vissuta dai miei interlocutori, in modo da approcciarne in modo corretto le esigenze. Un secondo punto è la conoscenza dell’azienda presso la quale devo fare formazione: chiedo quali sono i temi importanti che si vogliono affrontare, quali le aree problematiche, i margini di miglioramento sui quali si intende lavorare.

Il terzo elemento è invece la dinamicità. Secondo la piramide dell’apprendimento, in modalità ascolto si apprende il 10% di quanto ci viene detto. Se invece sono chiamato a insegnare qualcosa a qualcun altro, assorbo il 90% dei concetti. Ecco perché studio delle modalità di formazione miste, che includono lezioni in aula, attività outdoor, giochi esperienziali, test, che possono servire come base per intavolare una condivisione di idee.

Nella dinamicità rientra anche l’approccio dell’auto-osservazione, che trovo molto utile per rendere le persone consapevoli dei propri bias e trigger. Perché credo che l’autoconsapevolezza, raggiungibile quando ci si guarda da un punto di vista esterno a noi stessi, come se fossimo narratori in terza persona della nostra storia, sia la condizione necessaria al cambiamento. Del resto, è il lavoro che ho fatto su me stessa nella mia vita da atleta. Capire dove sono i margini di miglioramento, introdurre nuove conoscenze, apprendere continuamente. Credo sia importante trovare in noi qualcosa che ci piace, un obiettivo verso cui tendere e uno stimolo per migliorarsi, cercando le modalità, le condizioni e gli strumenti giusti. E ci si migliora solo attraverso l’esercizio costante, tanto meglio se è frequente e non pesante.

Ha notato una maggiore attenzione rispetto al tema della formazione negli ultimi anni?

Siamo consapevoli di vivere un momento storico caratterizzato dalla rivoluzione digitale, nel quale i cambiamenti sono epocali e repentini. Alle persone si richiede di avere sempre più conoscenze e competenze. È importante indubbiamente possedere delle “hard skill”, ma oggi è fondamentale anche sviluppare le “soft skill”.

Non a caso si dice che si fa carriera grazie alle “hard skill” e che si hanno invece battute d’arresto per mancanza di “soft skill”. Flessibilità, resilienza, capacità di comunicazione sono oggi determinanti e c’è una maggiore attenzione nei loro confronti. Così come c’è una sensibilità diversa sul tema della leadership, che non è più intesa solo come “comando” di un gruppo di lavoro. In questo scenario, gli investimenti in formazione sono stati rafforzati, soprattutto dopo che la pandemia ha portato cambiamenti incisivi nel mondo del lavoro.

Quali “soft skill” dovremmo acquisire per vivere bene l’esperienza lavorativa?

Credo che più di tutte vada sviluppata l’empatia. Dovremmo essere empatici anche verso noi stessi, perché dove c’è empatia c’è una cornice di umanità. Siamo nel campo delle competenze emotive, che sono la base per creare equilibrio all’interno dei gruppi di lavoro. L’empatia, lo spessore umano, le emozioni sono a mio avviso gli aspetti fondanti di una buona comunicazione, della resilienza e di una mente aperta. Sono elementi che, concatenati l’uno all’altro, portano al concetto di anti-fragilità, ossia alla capacità di migliorarci affrontando le difficoltà che incontriamo, vivendole come opportunità per evolverci.

Si può insegnare, e imparare, a essere empatici?

La persona non empatica è solitamente rigida, ha creato un muro attorno a sé, spesso per un meccanismo di difesa. Bisogna abbatterlo. Ricordo un manager che mi parlò di uno scontro avuto con un collaboratore e quando gli chiesi se avesse provato a mettersi nei panni dell’altro, non seppe rispondermi, non aveva minimamente contemplato l’idea di farlo. Ma il primo passo da compiere per sviluppare empatia è proprio chiedersi come può sentirsi l’altro.

Sviluppare empatia non è un meccanismo immediato, ma si può iniziare a stimolare una riflessione, a mettere in moto un processo anche nella persona che sembra non voler abbattere il proprio muro.

CHI È JOSEFA IDEM

Josefa Idem nasce nel 1964 a Goch, in Germania, Paese che la vede debuttare come canoista e del quale rappresenta i colori fino al 1990. In carriera ha vinto 38 medaglie tra Giochi olimpici, mondiali ed europei. Ha partecipato a 8 edizioni delle Olimpiadi, ininterrottamente dall’edizione di Los Angeles 1984 a quella di Londra 2012. Nelle prime due Oilmpiadi ha rappresentato la Germania Ovest vincendo un bronzo. Nelle altre Josefa Idem ha gareggiato per l’Italia vincendo un oro, due argenti e un bronzo.

È stata eletta senatrice nelle file del Partito Democratico alle elezioni politiche del 2013 e ha ricoperto, da aprile a giugno dello stesso anno, la carica di ministro per le Pari opportunità, lo Sport e le Politiche giovanili. A febbraio ha superato l’esame di Stato per l’iscrizione all’Albo degli Psicologi.

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