Il Diversity Management è un lavoro

Gestire la diversità all’interno di un contesto organizzativo e di business: Elisa Bonati, consulente e formatrice, ci aiuta a capirne di più

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Diversity management: nuovo ruolo nelle organizzazioni

Diversità e inclusione si possono misurare, si devono valorizzare e, soprattutto, gestire. Ecco perché si parla di Diversity Management. Un’attività nata negli Stati Uniti in contesti organizzativi di grandi dimensioni e che si sta facendo strada anche in Italia. Sia come conseguenza dei cambiamenti che hanno interessato negli ultimi anni la composizione della nostra società, sia sulla spinta data dall’UE.

Elisa Bonati, consulente presso MGconsulting e docente di Lavorofacile.it Academy, ci aiuta a capirne di più. “Opinione diffusa è far coincidere il Diversity Management con il tema delle pari opportunità in ambito di genere, integrazione generazionale, orientamento religioso, politico e sessuale, disabilità ed etnia. Ma non è solo questo. Si include anche la diversità inserita all’interno di un contesto organizzativo e di business”.

Come si potrebbe definire il Diversity Management e che cosa intendiamo quando parliamo di diversità?

Diversity Management: l'opinione di Elisa Bonati
Elisa Bonati, consulente presso MGconsulting
e docente di Lavorofacile.it Academy

Un’interessante definizione ci viene proposta dall’Unione Europea. “Lo sviluppo attivo e cosciente di un processo manageriale lungimirante, orientato al valore, strategico e comunicativo di accettazione delle differenze e uso di alcune differenze e somiglianze come un potenziale dell’organizzazione, un processo che crea valore aggiunto per l’impresa”. Il DM è quindi l’insieme di misure e strumenti che consentono di valorizzare e gestire a 360  la diversità dei lavoratori. Promuovendone l’inclusione negli ambienti di lavoro, andando oltre gli strumenti che il legislatore mette a disposizione delle imprese.

Sulla diversità, riprendo invece quanto detto da Marilyn Loden e Judy B. Rosener, che parlano di diversità primarie. In cui sono inserite l’età, il genere, l’etnia, la religione e tutto ciò che fa parte di un patrimonio innato dell’individuo e che non può essere modificato. In quelle secondarie sono inseriti il percorso formativo e professionale, l’esperienza e il ruolo nell’organizzazione, il reddito, la collocazione geografica. Ossia elementi acquisibili, e quindi modificabili nel tempo.

Riferite al contesto aziendale, inoltre, le diversità interessano tre livelli. L’identità personale, che subisce delle modifiche nel corso del tempo e rappresenta l’unicità dell’individuo, l’identità culturale di gruppo, che si basa sulla condivisione di valori, simboli e linguaggi, e l’appartenenza organizzativa, basata sulla condivisione della cultura organizzativa, delle strategie e delle pratiche.

Ci sono riferimenti riconducibili alla diversità in ambito lavorativo nella legislazione italiana?

L’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008 stabilisce che il datore ha il dovere di valutare “tutti i rischi per la sicurezza, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro- correlato… e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza… nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione”.

Lo stesso decreto prevede la “tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”. Si comprende, quindi, che la nostra legislazione impone di considerare la prevenzione tenendo conto delle peculiarità dei lavoratori. Evitando di destinarla a un lavoratore-tipo, astratto e neutro. La normativa fa quindi coincidere i “gruppi esposti a rischi particolari” con quelli legati alle politiche antidiscriminatorie. Da cui si ricavano i gruppi stessi o i fattori di rischio: sesso, razza, origine etnica, nazionalità, religione, disabilità, età, orientamento sessuale, salute, convinzioni personali, orientamento o attività sindacale, orientamento politico.

Questa corrispondenza non è un caso. Le persone “fragili”, sia per caratteristiche fisiche che per caratteristiche socioeconomiche o ambientali, sono anche quelle maggiormente colpite da discriminazioni. Perché spesso considerate meno produttive da parte delle organizzazioni aziendali.

E normative per limitare il rischio di discriminazioni per particolari fattori di diversità?

Il nostro ordinamento pone l’accetto, principalmente, sulle differenze di genere e prevede misure specifiche a tutela delle donne. Proprio perché sono più esposte a diversi rischi, primi fra tutti quello di stress lavoro correlato, per una non corretta conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, e quello di molestie sessuali. Sul primo punto, la legislazione ha introdotto norme che, ad esempio, prevedono per le lavoratrici madri un diritto di precedenza rispetto ai colleghi maschi per quanto riguarda lo Smart Working (art. 18 L. 81/2017), agevolano il part-time e permessi retribuiti.

Sulla questione delle molestie, la L. 205/2017 ha rafforzato i doveri del datore di lavoro volti a prevenire atteggiamenti di questo tipo. Si tratta di disposizioni derivanti da obblighi di legge imposti dall’art. 2087 del Codice Civile. Anche la disabilità è un fattore che il nostro ordinamento disciplina in modo preciso, richiamando la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Il D.lgs 216/2003 impone al datore di lavoro di adattare e modificare l’organizzazione aziendale per accogliere soggetti con disabilità, con misure di tipo architettonico, ambientale, biomedico, formativo ecc. Le quali possono essere adottate chiedendo anche il sostegno dell’Inail, che prevede aiuti per i progetti di inserimento e formazione di persone disabili. La L.68/1999, poi, obbliga le aziende ad assumere e proteggere i lavoratori con disabilità nei limiti previsti dalla norma.

Gestire la diversità in azienda significa anche promuovere l’integrazione, se si parla di persone provenienti da diversi Paesi…

Per le molte persone provenienti dall’estero che trovano occupazione presso organizzazioni italiane è spesso difficile trovare ambienti lavorativi inclusivi. La principale criticità riguarda la scarsa conoscenza della lingua italiana, che li pone in una oggettiva condizione di svantaggio. Le aziende devono valutare attentamente questi fattori, introducendo misure adeguate a favorire un corretto processo di integrazione.

Anche la sfera religiosa ha un forte impatto. Ci sono lavoratori che potrebbero avere la necessità di allontanarsi dal luogo di lavoro per dedicarsi alla preghiera o di osservare digiuni, non consumare determinati cibi, indossare un abbigliamento tipico. Queste situazioni possono essere gestite attraverso prassi aziendali che preservino l’attività lavorativa, anche in assenza del lavoratore, rispettando le norme sulla sicurezza del lavoro. Consentendo, allo stesso tempo, al lavoratore stesso di coltivare la sua fede religiosa anche in azienda.

Come evitare, invece, discriminazioni sulla base della differenza di età?

Chiaramente i lavoratori che hanno un’età avanzata possono sviluppare dei deficit fisici, che potrebbero compromettere la loro capacità di svolgere l’attività lavorativa nel migliore dei modi. In questo caso l’azienda potrebbe gestire il ricambio generazionale attraverso strumenti che permettono un corretto accompagnamento alla pensione. Un esempio è l’isopensione: si tratta di modalità piuttosto costose per l’impresa, ma poco invasive per l’organizzazione aziendale.

Diversamente, le organizzazioni potrebbero adeguare gli ambienti di lavoro con corretti sistemi di illuminazione, progettare linee di produzione dedicate e più lente, utilizzare software più semplici e sviluppare soft skill. Ma in questo caso l’impatto sarà rilevante sia sull’assetto organizzativo, sia sui costi.

Un altro fattore di diversità l’orientamento sessuale. Qual è lo scenario?

Secondo un’indagine condotta da Istat e Unar nel 2019, il 5,1% delle imprese con almeno 50 dipendenti (pari a oltre mille imprese) ha adottato almeno una misura ulteriore rispetto a quanto già stabilito per legge, volta a favorire l’inclusione dei lavoratori LGBT+. Tra queste misure si ricordano: eventi formativi rivolti al top management e ai lavoratori sui temi legati alle diversità LGBT+; iniziative di promozione della cultura d’inclusione e valorizzazione delle diversità LGBT+; misure ad hoc per i lavoratori transgender; permessi, benefit e altre misure specifiche per i lavoratori LGBT+.

Per gli stakeholder intervistati, gli assi prioritari d’intervento si fondano sulla diffusione di una cultura delle differenze. E sulla realizzazione di attività di formazione sulle diversità, non solo in relazione alla sfera lavorativa. Tale cultura dovrebbe essere promossa a diversi livelli, dossier diversity a partire dalle istituzioni scolastiche. Gli stakeholder ritengono che la formazione debba essere rivolta in prima battuta ai datori di lavoro e al top management. Inoltre, alcuni degli intervistati hanno sottolineato l’importanza di una presa di posizione esplicita da parte dei datori di lavoro, pubblici e privati, a favore dei diritti delle persone LGBT+.

Oltre che ai datori di lavoro e ai lavoratori, la formazione e sensibilizzazione sulle tematiche legate alle diversità dovrebbe essere rivolta anche a vari attori che operano per il contrasto alle discriminazioni. Quindi va promossa, ad esempio, tra i delegati sindacali, perché abbiano piena coscienza dei fenomeni discriminatori, nelle scuole di polizia e tra le altre forze dell’ordine.

In azienda il panorama delle diversità può quindi essere davvero composito. Qual è, allora, il compito di un Diversity Manager?

Il Diversity Manager, insieme alle Risorse Umane, cerca le migliori soluzioni volte a favorire l’inclusione e la tutela alla salute rispettando la dignità di tutti. Al fine di ottenere una realizzazione personale e professionale nella diversità. Un’azienda che non adotta politiche inclusive espone l’organizzazione a comportamenti discriminatori non controllati e al mancato rispetto della normativa. L’azienda, però, dovrà sostenere dei costi…

Diventa innegabile che, quando si decide di introdurre in azienda una vera e propria politica di Diversity, le organizzazioni sostengano costi elevati di vario tipo. Oltre ai costi di tipo organizzativo, l’introduzione del Diversity Management comporta un elevato utilizzo di ore/uomo e costi di tipo legale, inerenti allo studio delle forme giuridiche corrette per adottare la parità di genere, e costi relativi allo scivolo pensionistico. Sarebbe opportuno verificare anche le agevolazioni che il legislatore mette a disposizione delle aziende, per consentire una corretta introduzione del DM.

Esistono poi altri due potenziali fattori negativi, da valutare attentamente. In primo luogo, anche se sembra contraddittorio, introducendo politiche inclusive si può rischiare di ottenere l’effetto contrario. Ossia la mancata percezione di parità di trattamento, da parte dei vertici aziendali, nei confronti delle persone. In secondo luogo, alcuni aspetti dell’identità individuale mal si conciliano con la cultura organizzativa, generando conflitti di comunicazione e atteggiamenti difensivi che portano a inefficienze.

A fronte dei costi, quali sono però i benefici?

Come riportato da risorseumanehr.com, l’elenco dei benefici per l’azienda che contempla il Diversity Management è lungo. Tra questi troviamo: aumento della motivazione, riduzione dell’assenteismo, miglioramento dell’immagine aziendale, maggiore attrattività verso i talenti e migliore capacità di affrontare le sfide della globalizzazione. E ancora, aumento dell’innovazione e della creatività, clima aziendale sereno e disteso, integrazione degli interventi legislativi in tema di pari opportunità e categorie e miglioramento dei rapporti con le comunità locali.

La diversità in azienda va quindi tutelata. In un’ottica di miglioramento delle condizioni di lavoro, di benessere e di accettazione delle diversità. Importante ricordare come il DM vada accompagnato e sostenuto, anche con incentivi statali e opportuni accordi sindacali. Affinché non diventi un modo per scaricare sulle imprese le mancanze del sistema di welfare e gli effetti di barriere, materiali e culturali, nei confronti di alcuni gruppi. Allo stesso modo, il DM deve essere adattato al contesto specifico italiano, caratterizzato dalla presenza di numerose piccole e medie imprese. E allo scenario attuale segnato dagli effetti del Covid e dall’esigenza di ottimizzare i costi.


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