Rider: chi decide le sorti della categoria?

Come si collocano i rider a livello di contrattazione? Appartengono alla categoria del lavoro autonomo o a quella del lavoro subordinato? Non esiste ancora una risposta certa a questa domanda, anche se molti giudici sono già stati chiamati a pronunciarsi sul tema.

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di Luigi Beccaria* |

In ambito giuslavoristico, ma anche comunicativo e sociale, un tema particolarmente d’attualità è quello riguardante i cosiddetti rider, categoria di lavoratori tipica della gig economy che si occupa di tramutare un ordine su internet in una consegna a domicilio.

Accessibilità di una (sia pur modesta) prospettiva di guadagno, soprattutto per giovani studenti, facilità di candidatura tramite piattaforme on-line e velocità di acquisizione del ruolo, sono le caratteristiche principali di questa nuova figura; in tal senso i rider sono i rappresentanti di un nuovo orizzonte lavorativo che, in quanto tale, necessita di una normazione precisa in grado di inquadrare correttamente i lavoratori (id est: nell’alveo del lavoro autonomo o del lavoro subordinato).

I lavoranti sono al servizio di piattaforme on-line di delivery a cui si registrano, segnalando la propria disponibilità per le consegne, il cui storico determina poi il ranking che consente ai “migliori” di avere la precedenza nella scelta dei turni di lavoro. La mansione consiste essenzialmente in movimenti in bici o in scooter, con la garanzia di consegna rapida del prodotto, entro i tempi stabiliti.

Autonomi o subordinati?

L’oggetto di analisi del presente contributo riguarda il possibile collocamento dei rider tanto all’interno della categoria del lavoro autonomo quanto all’interno di quella rappresentata dal lavoro subordinato. Le motivazioni che fanno dedurre l’appartenenza dello stesso alla prima fattispecie si riferiscono alla proprietà e alla manutenzione degli strumenti/mezzi utilizzati durante lo svolgimento della mansione, nonché alla mancanza di un ordine gerarchico predeterminato (con effetti rilevanti sul piano del controllo dei dipendenti e, conseguentemente, sul piano disciplinare, tant’è che, prima del riconoscimento giudiziario della subordinazione, le sanzioni irrogabili non potevano che essere atipiche) e la non effettiva sottoposizione a un potere direttivo.

In aggiunta, per effetto della loro riconduzione al rapporto di co.co.co, non hanno diritto a maturazione di ferie e trattamento di fine rapporto e a un trattamento economico – normativo della malattia, oltre al fatto che la società può decidere di interrompere il rapporto di lavoro in qualsiasi momento, senza la necessità di un giustificato motivo o una giusta causa.

Purtuttavia, vi sono alcune ragioni squisitamente giuridiche che confortano la riconduzione degli stessi nell’alveo della subordinazione, a partire dalla retribuzione, la quale non è stabilita in base alla quantità e di conseguenza al relativo prezzo del prodotto trasportato e consegnato, come avverrebbe per un lavoratore autonomo, ma è determinata da un salario orario minimo. Oltre a quanto sopracitato è importante fare riferimento al concetto relativo alla continuità del rapporto lavorativo e alla apparente e fittizia libertà di scegliere se e quando lavorare, in quanto il lavoratore può decidere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio. In relazione a tale meccanismo si può considerare la retrocessione nel punteggio una sanzione disciplinare atipica.

Le grandi piattaforme e i contratti

Attualmente è impossibile riconoscere nell’ordinamento italiano una disciplina chiara ed univoca del lavoro svolto dai rider, e per tale motivo le grandi piattaforme come Just Eat e Foodora gestiscono autonomamente i contratti dei lavoratori, qualificandoli tipicamente come rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

Alla luce della situazione descritta, molti giudici sono stati chiamati a pronunciarsi sul tema, soprattutto su iniziativa dei soggetti interessati, i quali richiedono il riconoscimento del proprio inquadramento contrattuale a titolo di lavoro subordinato, volendo vedere garantiti maggiori diritti.

A tal proposito è opportuno citare la sentenza del Tribunale di Palermo, n.3570, 24 novembre 2020, nella quale il Giudice ha ritenuto che, stante la natura giuridica di impresa delle piattaforme, i collaboratori possano lavorare “per conto (e non semplicemente in nome)” delle stesse e che dunque “siano inseriti in un’organizzazione imprenditoriale di mezzi materiali e immateriali, di proprietà e nella disponibilità della piattaforma stessa e così del suo proprietario o utilizzatore”.

Il Tribunale di Palermo prosegue ritenendo che non solo nella fattispecie concreta sia presente il requisito dell’etero-organizzazione, ma che vi sia una forma di etero-direzione. Viene sostenuto, infatti, che la libertà del ricorrente di scegliere se e quando lavorare, sulla quale, come visto sopra, si fonda la natura autonoma della prestazione, risulta più apparente che effettiva. Ciò in ragione del fatto che il “rider” non può effettivamente lavorare quando vuole, posto che egli può al massimo scegliere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro che ne è titolare o ne ha il controllo) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio.

L’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo da parte dell’impresa mediante la piattaforma digitale si traduce nella messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti archi di tempo e nell’esercizio da parte della società del potere direttivo, disciplinare (atipicamente) e di controllo che riconducono lo schema negoziale in oggetto, almeno nei suoi tratti fondamentali, a quello del rapporto di lavoro subordinato.

Reinterpretare il concetto di subordinazione

Il Giudice ha esplicitato quindi la necessità di reinterpretare il concetto di subordinazione alla luce del mutato contesto economico e sociale, tanto più in un periodo storico caratterizzato da un’emergenza pandemica che ha conseguentemente stravolto le abitudini dei cittadini e in cui i rider svolgono il ruolo di garanti della continuità di un servizio essenziale per le famiglie su tutto il territorio nazionale.

Tutto ciò premesso, occorre domandarsi se una decisione di suddetta rilevanza, ovvero la collocazione dei rider all’interno della categoria dei lavoratori subordinati, possa essere determinata, sia pur attraverso un percorso argomentativo – giuridico in sé coerente, dalla decisione di un singolo giudice – persona fisica.

Occorrerebbe, in un mercato del lavoro flessibile e vario come quello attuale, in cui la cosiddetta “gig economy” sta diventando sempre più dominante, l’introduzione di una normativa per le tutele di tali lavoratori decisa e stabilita in modo ineccepibile attraverso un’esplicita presa di posizione del legislatore, rappresentativa della maggioranza dei cittadini, ovvero di una inequivocabile regolamentazione data dall’accordo delle associazioni di categoria competenti. Questo sia al fine di ribaltare l’attuale situazione di aleatorietà,   sia al fine di lasciare la regolamentazione di interessi economici così rilevanti (si parla di sanzioni per 733 milioni di euro per la “regolarizzazione”) in mano a quei soggetti che giuridicamente portano con sé una maggiore rappresentatività.


* Luigi Beccaria è avvocato ed è partner di Studio Elit. Collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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