di Laura Reggiani |
Negli ultimi 10 anni, sono state perse 1,8 miliardi di ore di lavoro, equivalenti a un milione di lavoratori full time. La riduzione dell’intensità di lavoro è determinata in gran parte dal forte aumento del part-time, soprattutto per le donne (oltre il 50% delle assunzioni nel 2017). Se osserviamo invece gli aspetti sociali e le incombenze di cura delle madri, in Italia nel 2017 ci sono 433mila madri inattive o part-time a causa dell’inadeguatezza dei servizi di cura dei bambini o per le persone non autosufficienti.
Questo in sintesi quanto emerge dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro “Donne al lavoro: o inattive o part-time“ che ha analizzato i dati dell’occupazione femminile, soffermandosi sulle cause che inducono le donne a scegliere il part-time o all’inattività e sulle retribuzioni di ingresso al momento dell’assunzione del lavoratore, mettendo a fuoco anche le pesanti conseguenze sul piano pensionistico derivanti da carriere discontinue o da tempi di lavoro ridotti.
Il part-time involontario
Come già analizzato i dipendenti con orario ridotto sono passati dai 2,5 milioni del 2008 ai 3,5 milioni del 2017, con un incremento dell’81% tra quelli con età compresa tra i 45 e i 64 anni. Da segnalare che il 40,9% delle mamme tra i 25 ed i 49 anni è impiegata a tempo parziale, contro il 26,3% delle donne senza figli. Il numero dei figli non incide particolarmente sul ricorso al part-time, segno che già dal primo figlio si deve far fronte a un notevole onere aggiuntivo per conciliare i tempi di cura familiare e di lavoro. Invece, per gli uomini il lavoro part-time è una modalità residuale che in nessuna condizione supera il 10%.
Il problema pensionistico
La bassa partecipazione delle donne, ed in particolare delle madri, al mercato del lavoro ha delle gravi conseguenze anche sul piano pensionistico. Questa condizione non consente di alimentare in modo continuo le posizioni previdenziali utili all’accesso alla pensione di vecchiaia. I dati Inps sui percettori di pensioni in Italia mostrano chiaramente che, nonostante le donne beneficiarie di prestazioni pensionistiche siano 8,4 milioni (862mila in più degli uomini), solo il 36,5% beneficia della pensione di vecchiaia – frutto della propria storia contributiva – contro il 64,2% degli uomini. Inoltre le donne, laddove arrivino a percepire la sola pensione di vecchiaia, si vedono riconosciuto un assegno mensile inferiore di un terzo rispetto a quello degli uomini.
L’inadeguatezza dei servizi
L’analisi del numero di madri inattive oppure occupate part-time a causa dell’inadeguatezza dei servizi per l’infanzia e per le persone non autosufficienti, consente di verificare quanto pesi l’inadeguatezza di questi servizi nella decisione delle donne di non lavorare o di lavorare solo a tempo parziale rinunciando a una parte del reddito di lavoro. Di conseguenza, è possibile stimare in quale misura il rafforzamento di questi servizi potrebbe consentire a un numero maggiore di donne di conciliare i tempi di lavoro con la cura della famiglia, spesso a carico unicamente della componente femminile.
Rafforzare i servizi di assistenza per la cura dei figli o delle persone non autosufficienti è quanto mai essenziale.
Potenziare tali prestazioni consentirebbe a tantissime donne di conciliare i tempi di lavoro con la cura della famiglia e di permettere a un numero maggiore di donne di partecipare a pieno nel mondo del lavoro, in tutti i settori produttivi.
Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro
Le madri che nel 2017 potrebbero cambiare la propria posizione nel mercato del lavoro se fossero disponibili servizi adeguati sono 433mila, delle quali 280mila nella condizione di inattive (oltre due terzi: 64,7%) e 153mila in quella di part-time (il 35,3%). Delle 433mila madri inattive o part-time a causa dell’inadeguatezza dei servizi di cura, l’88% lamenta la carenza di quelli rivolti all’infanzia e il 12% alle persone non autosufficienti. A Palermo quasi metà dell’intera platea di madri in età lavorativa lamenta inadeguatezza dei servizi, mentre tale quota scende a poco più del 12,5% a Milano. Altri grandi città dove si registra una quota superiore alla media di donne costrette a non cercare un’occupazione o a lavorare part-time sono Catania (40,2%), Messina (36,6%), Genova (27,5%) e Napoli (27,1%).
Il “gender pay gap”
Oltre il 50% delle assunzioni di donne è di tipo part-time, dato che nel 2017 ha raggiunto il massimo storico (54,6%) rispetto al 2009 (47,1%). Tenendo conto della retribuzione media complessiva sia part-time che full time, emerge una ampia differenza di genere fra maschi e femmine. In particolare le donne, che sono assunte prevalentemente con contratti part-time, nel 2017 hanno avuto una retribuzione media da lavoro inferiore del 15,3% rispetto a quella dei maschi.
Nel 2017 il 29,5% dei lavoratori assunti ha ricevuto uno stipendio mensile inferiore a 780 euro. La percentuale sale al 35,7% per le donne.
In termini assoluti, le classi di reddito più basse vedono una prevalenza di donne rispetto agli uomini, mentre il rapporto di genere si inverte a partire dalle retribuzioni superiori a mille euro. Nella classe di reddito da 1.500 a 2.000 euro gli uomini sono il doppio delle donne, mentre per i redditi ancora più alti il rapporto è di una donna ogni tre uomini.
Le professioni povere
Se si analizzano in dettaglio le professioni svolte da lavoratrici che comportano stipendi bassi, troviamo ai primi due posti i lavori di assistenza domiciliare, in gran parte svolti da immigrate: al primo posto 90mila collaboratrici domestiche, pari al 76% delle assunte nel 2017, che hanno un reddito mensile da lavoro inferiore alla soglia di povertà, mentre al secondo posto 88mila badanti (44% del totale delle badanti assunte nel 2017). Seguono le professioni nelle attività commerciali con quasi 86mila commesse (su 225mila), 82mila cameriere (su 215mila) e 61mila bariste (55% del totale).
Un caso particolare è rappresentato dalle venditrici a domicilio, a distanza e professioni assimilate, ovvero tutte coloro che vendono merci o servizi porta a porta, direttamente presso il domicilio di potenziali clienti, sollecitano ordini di merci o di servizi telefonando a possibili clienti. In questa categoria il 93% delle lavoratrici percepisce retribuzioni sotto la soglia di povertà.
Le prime 10 professioni svolte da donne con un reddito mensile inferiore a 780 euro (fonte elaborazioni Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro su microdati Cico)
Professione |
Lavoratrici assunte |
Reddito inferiore a 780 € |
Collaboratrici domestiche |
119.277 |
90.885 |
Addetti all’assistenza personale |
198.295 |
88.013 |
Commessi delle vendite al minuto |
225.245 |
85.787 |
Camerieri |
214.735 |
81.964 |
Baristi |
112.246 |
61.495 |
Personale addetto ai servizi di pulizia |
79.350 |
55.099 |
Addetti agli affari generali |
127.425 |
44.471 |
Operai addetti ai servizi di igiene e pulizia |
58.692 |
41.191 |
Personale nei servizi di ristorazione |
55.875 |
31.719 |
Venditori a domicilio, a distanza |
30.141 |
28.116 |
Altre professioni |
1.590.699 |
396.022 |