L’esperienza dei tirocini curriculari

Qualche suggerimento utile per realizzare con il tirocinio una buona formazione in alternanza.

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tirocinio

di Massimo Balducci* |

In queste poche righe riassumerò la deludente esperienza che ho maturato quale docente nel corso di Laurea Triennale erogato dalla Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Firenze per la formazione degli Assistenti Sociali, relativamente ai tirocini curriculari.

Tali tirocini sono due: uno, della durata di 220 ore, si svolge durante il secondo anno di corso; un altro, della durata di 440 ore, si svolge invece durante il terzo anno. Nella gestione di tali tirocini ho riscontrato diverse disfunzioni che temo siano abbastanza diffuse in tutto il sistema universitario italiano. L’esperienza maturata in altri sistemi formativi (in particolare in Germania, Olanda e Francia) mi ha permesso di formulare alcuni suggerimenti utili a realizzare una buona formazione in alternanza.

La durata e il periodo

La prima disfunzione riguarda la durata e la calendarizzazione dei periodi di tirocinio; la suddivisione delle 660 ore dedicate al tirocinio in due tranche risulta infatti disfunzionale, in quanto i due periodi sono troppo brevi (soprattutto il primo) per poter permettere una reale integrazione del tirocinante nella cultura del lavoro in azienda.

Questo aspetto è aggravato dal fatto che il tirocinio viene realizzato durante il normale decorso del semestre; questa rappresenta una seconda disfunzione. Il tirocinante deve infatti alternare la sua presenza nel posto di lavoro con la frequenza delle lezioni.

Questa situazione determina due problemi: da una parte il datore di lavoro non è mai certo della presenza del tirocinante in azienda e non può programmarne l’impiego; dall’altra il tirocinante non si sente veramente inserito nella cultura del lavoro full immersion e non è quindi portato a concentrare la propria attenzione sui problemi da risolvere.

Al di là delle Alpi si adottano invece due approcci diversi. Nei Paesi francofoni si concentra il tirocinio tutto nel quinto (penultimo) semestre, durante il quale lo studente non è tenuto a seguire alcuna lezione ed è tenuto a presentarsi sul posto di lavoro per cinque giorni la settimana full time.

In questo modo il datore di lavoro può programmare l’attività del tirocinante che da parte sua ha la possibilità di assorbire la cultura del tempo di lavoro in azienda (dove, se non ci si presenta, lo si deve preannunciare e avere una specifica autorizzazione, diversamente di quanto avviene con le lezioni). Qui il sesto (ultimo) semestre viene utilizzato per stendere la tesina che deve essere obbligatoriamente basata sull’esperienza del tirocinio.

Nei Paesi germanofoni, il tirocinio si concentra invece in due o tre giorni la settimana. Questo è reso possibile dal fatto che i programmi di insegnamento sono profondamente integrati con la pratica lavorativa.

I programmi

Una terza disfunzione riguarda i programmi. Il programma di tirocinio dovrebbe infatti essere ben specificato nel contratto, chedovrebbe evidenziare i “saperi” che l’Università garantisce che il tirocinante possiede e anche i “saper fare” che il tirocinante dovrebbe invece acquisire durante il tirocinio.

Per quanto riguarda i “saper fare” da acquisire, i contratti di tirocinio riportano poche parole, spesso sommarie. Nulla viene poi detto in rapporto ai “saperi” che l’Università garantisce che il tirocinante dovrebbe possedere e in questo si evidenzia un’ulteriore carenza del sistema.

L’insegnamento universitario non viene infatti erogato in funzione dell’attività che lo studente dovrà esercitare una volta laureato, ma in funzione di astratti principi teorici, se non addirittura degli specifici interessi del docente.

Un esempio è quello che riguarda l’insegnamento della materia “diritto penale”. All’assistente sociale interessa soprattutto l’aspetto “diritto carcerario”, cioè che cosa succede al detenuto. Orbene, l’insegnamento da noi erogato si concentra invece sui principi del processo e sull’acquisizione delle prove.

La riflessione che si può trarre da questa disfunzione riguarda il fatto che i nostri insegnamenti non vengono purtroppo erogati in funzione della reale attività che dovrà essere esercitata dagli studenti una volta laureati.

La figura del tutor

Una quarta disfunzione riguarda la figura del tutor. La normativa dell’ateneo fiorentino prevede solo un tutor aziendale che però non ha nessuna formazione per svolgere il suo compito.

Un bravo avvocato non è necessariamente un bravo maestro di praticanti avvocati, così come un bravo chirurgo non è necessariamente un insegnante ideale per formare chirurghi competenti. Anche i bravi professionisti devono essere formati per diventare dei tutor aziendali capaci; a loro bisogna insegnare a distillare il “saper fare” che hanno accumulato in maniera implicita e a esplicitarlo. L’esperienza maturata oltralpe dimostra che questa capacità può essere trasmessa in 30/40 ore di formazione.

Per quanto riguarda la figura del tutor, va tenuto presente che, oltre al tutor aziendale, dovrebbe esistere un secondo tipo di tutor: quello accademico. Si tratta di una figura chiamata a smussare i rapporti tra il tutor aziendale e il tirocinante, nella prospettiva dei requisiti di correttezza scientifica dei contenuti dell’apprendimento sul campo.

Non va infatti dimenticato che, spesso, gli esempi concreti con cui vengono a contatto i tirocinanti rappresentano vere e proprie deviazioni aberranti dai requisiti di una corretta prestazione professionale. Nella nostra Università i tutor universitari sono invece dei laureandi che ricevono una piccola borsa di studio per supportare i tirocinanti.

Qualche insegnamento

Quali insegnamenti si possono trarre da questa deludente esperienza? Sostanzialmente due. Il primo riguarda gli accademici, che devono abituarsi a pensare alla attività in cui saranno impiegati i loro studenti in modo da selezionare in maniera appropriata i “saperi” da trasferire a tali studenti. Un secondo si riferisce agli operatori, che devono imparare a prendere consapevolezza dei principi scientifici su cui si basano le operazioni pratiche che realizzano.


* Massimo Balducci è docente di “Analisi delle organizzazioni” e di “Auditing e controlling” alla Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Firenze


Cos’è il tirocinio e come funziona?

Il tirocinio, o “stage” dal francese, consiste in un periodo di orientamento al lavoro e di formazione, che non si configura come un rapporto di lavoro subordinato. Per i soggetti che devono inserirsi o reinserirsi nel mondo del lavoro, rappresenta una misura formativa di politica attiva che permette di vivere temporanee esperienze all’interno di dimensioni lavorative che favoriscono una conoscenza diretta di una professione.

Esistono diverse tipologie di tirocini. I tirocini “curriculari” sono quelli inclusi in un processo di apprendimento formale, svolto all’interno di piani di studio delle università e degli istituti scolastici.

I tirocini “non curriculari”, mediante una formazione in un ambiente produttivo e una conoscenza diretta del mondo del lavoro, sono invece finalizzati ad agevolare le scelte professionali dei giovani nella fase di transizione dalla scuola al lavoro. Appartengono a queste categoria i tirocini formativi e di reinserimento o inserimento al lavoro mirati a inserire o reinserire nel mondo del lavoro soggetti privi di occupazione o con particolari svantaggi.

La loro disciplina spetta alle Regioni e alle Province Autonome, sebbene le Linee guida nazionali forniscano una cornice normativa di riferimento, al fine di evitare un utilizzo improprio di questo strumento.

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